In Sicilia le concessioni balneari sono un affare di famiglia. La durata standard fissata dalla legge è di sei anni, ma di solito chi ottiene il beneficio dal demanio lo mantiene più a lungo, pagando canoni relativamente bassi per aree molto ampie. In media si va da circa 1,5 a 2,5 euro a metro quadro. All’anno, non al mese. È quanto emerge dall’elenco delle concessioni pubblicato sul Portale demanio marittimo della Regione siciliana. Tutto pienamente legittimo, in attesa delle gare imposte dall’Unione europea, e confermate da una recente sentenza della Corte di giustizia di Lussemburgo. Il database della Regione – con 42 nuovi documenti caricati lo scorso anno – sembra tutt’altro che aggiornato, e spesso per gli anni precedenti al 2022 gli allegati non risultano disponibili. Scorrendo il materiale pubblicato, tuttavia, qualche dato emerge. Il più evidente è quello dei canoni, che come detto risultano molto bassi. A confermarlo è Antonino Lo Dico, dirigente del Demanio marittimo nella provincia di Catania. “Probabilmente con la messa a bando i prezzi sarebbero più alti. Anche se è vero ciò che sostiene la categoria dei balneari, e cioè che con gare europee le coste italiane potrebbero finire facilmente in mani straniere”.
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I costi delle concessioni
A fissare i prezzi è la legge regionale 32/2020, che riprende i canoni stabiliti a livello nazionale, “aggiornati agli indici Istat maturati alla stessa data”. I prezzi pagati da chi vuole impiantare uno stabilimento balneare nell’Isola, dunque, non sono diversi da quelli praticati nelle altre regioni d’Italia. I costi di occupazione variano sulla base dell’area demaniale richiesta e delle attività che si intende realizzare. Per fare alcuni esempi tratti dal Portale, una ditta occupa dal 2008 una superficie demaniale a Torre San Nicola, in provincia di Agrigento. La concessione originale riguardava un’area di circa mille metri quadri, cresciuti negli anni fino ad arrivare a 4.400 mq nel 2022. Il canone è di circa 6.600 euro l’anno, pari a 1,5 euro al mq. Un’altra società occupa dal 2013 una superficie di oltre 660 metri quadri a Cefalù, in provincia di Palermo. Il canone nel 2021 è di circa 1.500 euro l’anno, cresciuti a circa 1.550 nel 2022 e 2023 per l’adeguamento Istat. Conti alla mano, si tratta di 2,2 euro al mq. C’è anche chi ha iniziato l’attività da pochi mesi. È il caso di un’azienda che l’anno scorso ha ottenuto per la prima volta una concessione di circa duemila metri quadri ad Alì Terme, nel messinese. Il canone è di 4.400 euro l’anno, 2,15 euro al mq.
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La situazione nel catanese
Lo Dico fa il punto della situazione anche ai piedi dell’Etna. Qui le concessioni attive “sono circa 350”, ma di queste “appena un centinaio sono relative a stabilimenti balneari veri e propri, mentre le altre si dividono tra solarium, altri esercizi commerciali e passerelle di abitazioni private e condomini”. Anche nel catanese i costi si aggirano sui due euro al metro quadro, ma secondo il dirigente è necessaria una precisazione. I canoni infatti balneari “non possono essere paragonati agli affitti, che seguono un mercato completamente diverso”. Il paragone da fare, aggiunge l’esperto, “sarebbe piuttosto con i canoni di occupazione del suolo pubblico nei rispettivi Comuni”. Un altro capitolo riguarda la “mappatura” delle coste, per determinare il grado di occupazione dei litorali. “A livello regionale non mi risulta nessuna iniziativa, anche se io naturalmente so qual è la situazione nella zona di Catania”. Lo Dico preferisce non scendere troppo nei dettagli, “ma ci sono delle aree disponibili che potrebbero essere affidate”. Secondo il dirigente il tema delle gare “va sicuramente affrontato”, anche se non mancano altre necessità, “come l’adozione del Pudm, Piano di utilizzo del demanio marittimo, che in provincia di Catania non ha nessun Comune”.
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Il richiamo dell’Europa
Come ricordato, le concessioni balneari sono state al centro di un lungo braccio di ferro tra il governo nazionale e l’Unione europea. Motivo del contendere l’applicabilità della direttiva Bolkestein, che prevede la messa a bando dei servizi nei Paesi Ue, impostazione rifiutata dalla categoria dei balneari per i quali le spiagge rappresentano un bene e non un servizio. La questione è stata oggetto di svariati ricorsi al Tar. Uno di essi è stato “girato” dal Tribunale amministrativo regionale della Puglia alla Corte di giustizia europea, che lo scorso 20 aprile ha deliberato confermando l’applicabilità della direttiva Bolkestein alle spiagge. Adesso la palla passa al governo Meloni, che contro il parere del Consiglio di Stato italiano aveva deciso un’ulteriore proroga delle concessioni già in essere al 31 dicembre 2024. Un intervento non rinviabile, visto che i giudici di Lussemburgo hanno messo nero su bianco che gli spazi vanno assegnati seguendo “una procedura di selezione imparziale e trasparente”, e che in caso di ricorso i tribunali italiani devono seguire “le norme pertinenti dell’Unione, disapplicando le disposizioni nazionali non conformi alle stesse”.