In un Paese dove esiste l’espressione “emergenza continua”, capita di adottare per decreto soluzioni che dovrebbero essere la norma. Il coronavirus ha convinto molte imprese ad adottare lo smart working. Eppure, permettere ai dipendenti di lavorare da casa potrebbe essere un’opportunità economica e non un’esigenza sanitaria. Anche in Sicilia. Il problema non è tecnologico ma, come spiega Antonio Perdichizzi, ceo di Tree (società catanese che realizza progetti di innovazione). “È organizzativo e culturale”.
Il decreto sullo smart working
Un decreto attuativo del governo ha snellito le procedure per consentire ai dipendenti di lavorare da casa. Non servono “accordi individuali” previsti dalle norme in vigore. Il provvedimento, per ora, riguarda le regioni più colpite dall’infezione: Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Piemonte, Veneto e Liguria. Non un obbligo, quindi. Ma sono già tante le imprese che hanno chiuso gli uffici o che permettono ai lavoratori di operare “da remoto”. Lo smart working, però, non è solo una questione fisica. Come da definizione del Mise, è una modalità di impiego senza “vincoli orari o spaziali”, che assicura ai dipendenti “parità di trattamento” con quelli che restano in ufficio. Cioè stesso stipendio e stesse norme su infortuni e malattia.
I rischi dell’improvvisazione
“Non c’è dubbio che lo smart working sia utile e interessante, ma non improvvisa”, spiega Perdichizzi. Ecco perché non dovrebbe essere solo una condizione d’emergenza. “Sono necessari sistemi capaci di mettere in condizioni i lavoratori di collaborare anche a distanza”. Perché funzioni bene e a lungo (non solo come tampone per qualche settimana), non basta avere un pc, ma un nuovo modello organizzativo. Non è adatto a tutti i lavori. “Per alcuni, legati alla programmazione o al digitale, va benissimo. Per altre funzioni aziendali, come la consulenza o l’amministrazione, meno”. C’è poi un tema di sicurezza dei dati. Se l’infrastruttura IT non si limita all’ufficio, la cosiddetta “superficie d’attacco” (cioè i punti esposti a offensive esterne) è più ampia. Servono quindi sistema di tutela più articolati e una maggiore responsabilizzazione dei dipendenti. Sarebbero opportuna una formazione specifica, che in questi giorni non c’è stato il tempo di varare. E poi c’è una nuovo modo di lavorare, cui è necessario adattarsi: se non ben gestita, l’assenza di orari fissi può tramutarsi in assenza di tempo libero. Quindi: guai a improvvisare.
Sicilia: i vantaggi
Nei grandi centri urbani, i vantaggi sono soprattuto due, secondo il ceo di Tree. “Si evitano lunghi tempi di percorrenza e si risparmia se i costi immobiliari sono onerosi. Con lo smart working si possono avere uffici con spazi più contenuti, modulando la disponibilità delle postazioni con il lavoro da remoto. Si hanno così ricadute positive sia sulla qualità della vita dei lavoratori sia sul conto economico dell’impresa”. La chiave in Sicilia, però, sarebbe prima di tutto un’altra: “La regione può diventare una terra di smart working”. Cioè di lavoratori che operano a distanza per imprese con sede altrove. “Sarebbe un’opportunità che fa leva su un costo della vita più basso e su un ottimo capitale umano”.
Il ritardo delle imprese italiane
L’Italia è partita in ritardo. Secondo il rapporto Joint Ilo-Eurofound, nel 2015 solo il 7 per cento dei dipendenti italiani aveva accesso a programmi (anche solo occasionali) di smart working. Già cinque anni fa, Danimarca, Svezia e Olanda erano oltre il 30 per cento. E la Francia toccava il 25 per cento. In parte si spiega con la struttura produttiva del Paese: uno a trazione manifatturiera si presta meno al lavoro a distanza. Ma non può essere l’unica spiegazione. Negli ultimi anni, anche l’Italia si è mossa. Secondo l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, il 58 per cento delle grandi imprese ha già adottato soluzioni di questo tipo. Più indietro le Pmi: il 12 per cento ha abbracciato progetti strutturali di smart working, cui si aggiunge un 18 per cento di test “informali”. Le pubbliche amministrazioni si fermano al 16 per cento. “Per le Pmi – spiega Perdichizzi – è senza dubbio più difficile. Servono investimenti di tempo e risorse che spesso le piccole realtà non hanno. Bisogna agire su tanti aspetti: non solo tecnologico ma anche amministrativo, organizzativo, burocratico. Ci sono le eccezioni anche tra le Pmi, ma una grande impresa ha più risorse da mettere a disposizione ed è più pronta perché ha sistemi più codificati e strumenti per monitorare le performance. Molte hanno già adottato un modello ibrido, con alcune giornate da remoto e altre opzionali. È un approccio che sta dando risultati”.
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Un cambio culturale per imprenditori e dipendenti
“La frase più pericolosa è ‘abbiamo sempre fatto così’”. La citazione, attribuita a Grace Hopper, una delle pioniere della programmazione informatica, potrebbe calzare con quest’adozione forzata dello smart working. Chissà che non sia l’occasione per convincere lavoratori e imprenditori. Come sottolinea Perdichizzi, infatti, “da tempo la tecnologia è più che sufficiente”. Il freno è soprattutto “culturale”. Gli imprenditori sono “abituati a vedere fisicamente i lavoratori e molti pensano che se sono a casa non facciano niente. A questo si associa il tema del monitoraggio delle performance, misurate per obiettivi e non più per ore”. Ma serve un cambio di prospettiva anche per una parte dei lavoratori: “Hanno due approcci”, nota il ceo di Tree. “I più giovani sono pronti, per una questione di dimestichezza con la tecnologia ma non solo. Apprezzano di più l’idea che l’occupazione non sabbia un luogo fisico e hanno relazioni sociali anche oltre il proprio impiego. Le persone più adulte, invece, hanno spesso costruito un ambiente sociale attorno al proprio posto di lavoro”. In un’epidemia, non c’è nulla di positivo. Ma il coronavirus offre alcuni “spunti di riflessione”: “Se una cosa del genere fosse successa dieci anni fa, ci sarebbe stata una paralisi. Adesso invece è possibile mantenere un’operatività piena, risparmiando, diventando efficienti e senza inconvenienti per la salute. Questo può mettere in luce lo smart working come opportunità”.