Donare è una scelta. Donare è un gesto sicuro ed è gratuito. Tuttavia, tra i potenziali donatori quelli che scelgono di diventarlo sono una minoranza. Quanto ripreso in questo articolo fa riferimento ad una intervista che abbiamo deciso di chiamare “tra senso pratico e teoria”, senza bisogno di distinguere dove finisce l’uno e comincia l’altra, per rispondere ad alcune domande che rimandano al tema della donazione. Il nostro è un invito a includere la donazione del sangue nell’agenda, anche in questo momento di emergenza Coronavirus, spiega Carlo Sciacchitano, medico del lavoro e presidente dell’Avis provinciale Catania, con oltre 12.000 soci-donatori. Come tutti i comportamenti umani la donazione del sangue ha alle spalle un processo cognitivo articolato da parte di chi dona, una tendenza a percepire i bisogni dell’altro e ad assumerne la prospettiva; coinvolge una molteplicità di variabili che possono influenzarne l’esito.
Decidere (o no) di donare sangue
La donazione del sangue è una pratica di indispensabile supporto alla medicina, e sia pure con modalità organizzative molto diverse, è diffusa in tutto il mondo. Eppure è ancora poco studiata. Perché la gente decide (o non decide) di donare sangue? Un gesto, così semplice ma determinante, di sostegno verso tutta la Comunità. Come dice Sciacchitano i donatori sono anonimi, volontari e non pagati che si sottopongono all’atto della donazione in modo regolare o occasionalmente; esistono delle condizioni di tipo medico che prescrivono chi può donare: la buona salute e l’età. Le donne possono donare con minor frequenza degli uomini. Possono essere escluse dalla donazione alcune categorie di persone il cui sangue è considerato “rischioso”. Può donare, dunque, chiunque abbia i requisiti richiesti nell’allegato IV del Decreto del ministero della Salute del 2 novembre 2015. La prima cosa che emerge, da alcuni approfondimenti sulle caratteristiche dei donatori, è il netto divario tra le motivazioni cosiddette “formali”, quali ad esempio l’adesione ai valori sostenuti dall’Associazione, per fedeltà a un impegno assunto, e quelle invece da ritenersi più “profonde”, che rimandano a una dimensione più personale ed intima, non necessariamente esplicitata, del donatore.
Un comportamento prosociale
Donare sangue rientra tra quelli che vengono definiti comportamenti prosociali (Batson, 1998; Eisenberg et al., 2006), di cooperazione e di rispetto verso gli altri, e proprio perché il sangue non è ricevuto da una persona a noi conosciuta, non lo si dona perché sia contraccambiato; come tutti i comportamenti altruistici, la donazione rimanda ad una sensibilità cognitiva a percepire i bisogni dell’altro, ad assumerne le prospettive e a reagire emotivamente in congruenza con la situazione, con la consapevolezza di compiere una buona azione. L’esperienza personale sulla necessità di raccogliere sangue può influire sulla scelta di donare: (per esempio le persone che hanno ricevuto sangue, esse stesse o loro parenti). Questo gesto è dettato da un “principio di reciprocità” (Cialdini, 2017). La fedeltà a questo principio accade perché fin da bambini siamo portati ad accettare e a mettere in pratica questo obbligo interiore della restituzione “prendere senza restituire è sbagliato”. Ricevere qualcosa attiva un “sistema automatico” nella nostra cultura che ci fa sentire in obbligo nei confronti di chi ci ha dato qualcosa, in maniera molto forte, che ci spinge a restituire ciò che abbiamo ricevuto. Per Carlo Sciacchitano la motivazione alla scelta è applicata non soltanto a comportamenti singoli, ma anche a forme stabili di relazione nel contesto sociale. La scelta altruistica del donare è maturata all’interno di una consapevolezza di mettere a disposizione il proprio sangue, non solo nell’ambito di una decisione razionale individuale ma, anche all’interno di reti di concreti legami sociali. Una solidarietà attiva, concreta, attenta.
La risposta al perché la gente decide di donare allora forse andrebbe ricercata anche nella dimensione della socialità del gesto, all’interno di un senso di Comunità. Come si crea appartenenza? Secondo Sciacchitano, per produrre appartenenza occorre creare sicurezza emotiva con i volontari donatori, il lavoro di sintonizzazione emotiva è improntato su una relazione di disponibilità affettiva che costituisce il collante di un gruppo, la forza che cementa il senso di appartenenza e ne aumenta la coesione. Il servizio offerto dalle Associazioni di volontariato è, e deve essere, gestito con professionalità.
Tradizione familiare
Un’altra variabile che influenza la motivazione a donare risiede nella centralità della tradizione familiare (come generale tendenza degli individui a conformare le proprie opinioni e i propri comportamenti al modo di agire e di pensare delle persone che stanno loro intorno, al fine di venirne accettati e apprezzati). “Si sceglie di donare perché già lo fa una figura importante di riferimento all’interno della famiglia, dei rapporti di lavoro o di amicizia”; i neo donatori dichiarano spesso di avere almeno un familiare donatore (Lee, et al., 1999). Questo genere di influenza è più ricorrente per i donatori che sono impegnati attivamente nell’organizzazione e nel direttivo. Ma l’atto di donazione in qualche modo, con le sue implicazioni di realtà (il prelievo), fisiologiche (il sangue) e il contesto in cui avviene, scopriamo insieme al presidente Avis provinciale Catania, può determinare stati di tensione di ansia o di paura. A questa si aggiunge oggi, in tempo di emergenza Covid, la paura del contagio, sia del donatore che dei volontari e sanitari. Il ricordo delle prime esperienze di donazione, influenza l’intenzione a donare, specialmente se esiste un contrasto emozionale tra il ricordo dell’ansia percepita prima della donazione e le emozioni positive vissute dopo la donazione (Breckler et al., 1989). Questo contrasto tra il ricordo delle emozioni vissute durante la donazione di sangue, si rivela un forte predittore dell’intenzione a donare nuovamente (Piliavin et al., 1982).
Effetto Ringelmann
Per Sciacchitano, con l’aumentare del numero di donazioni fatte, inoltre, emerge e si rafforza quel senso di appartenenza ad una Comunità, che ne orienterà le scelte future verso la volontà di continuare a donare, sarà molto più probabile che le persone decidano di donare quando avvertono che il loro contributo porta a dei risultati concreti. Maggiore è il controllo comportamentale percepito (Ajizen, 1991), maggiore sarà la fiducia sperimentata, maggiore sarà la volontà di portare a termine l’azione con successo e la volontà di continuare a farlo. Tuttavia, tra i potenziali donatori quelli che lo diventano sono una minoranza. Perché? Ha mai sentito dire: “Qui sono tutti necessari e nessuno è indispensabile” Bella fesseria! Se anche fosse vero, sarebbe meglio tacere a volte.
Un fattore che influisce negativamente sul diventare donatore è quello che in psicologia viene definito “effetto Ringelmann” (1913). Le persone tendono a diminuire il proprio apporto al gruppo, nelle situazioni in cui il loro contributo non è facilmente identificabile. Viene ad alimentarsi una diffusione di responsabilità che si configura come “tanto c’è chi ci pensa”. La donazione del sangue è una scelta e più è consapevole più è appagante. Capirne le dinamiche vuol dire essere capaci di far nascere la gioia di donare e di tenerla viva, facendola crescere.