L’ascensore sociale è rotto. Non è vero però che in Italia chi nasce povero muore povero. È vero solo al Sud, soprattutto in Sicilia, dove non funzionano neanche le scale. Lo dimostra un lavoro di tre economisti italiani (Paolo Acciari, Alberto Polo e Giovanni Violante) pubblicato lo scorso aprile dal National Bureau of Economic Research. Per spiegare la frattura, lo studio cita proprio un caso siciliano: Palermo. La provincia del capoluogo regionale viene accostato con un’altra estesa e popolosa: Milano. Se si dividessero le famiglie in cinque fasce in base al reddito, un bambino palermitano che nasce nella più bassa ha circa una possibilità su venti di arrivare in quella più alta da adulto. Un percorso che è invece possibile per un piccolo milanese su quattro.
La Sicilia immobile
Palermo non è un caso isolato. Anzi. Ad Agrigento le probabilità di partire dal fondo e arrivare in cima sono ancora più basse (meno del 5 per cento). E attorno a questi livelli sono anche le altre province dell’isola. Le cose non vanno meglio se si considera, in modo più ampio, la “absolute upward mobility”, la mobilità sociale “in salita”. Cioè non solo quella che fa decollare dall’ultimo dei cinque gradini fino al primo, ma quella che – più semplicemente – vede un miglioramento della condizione iniziale. Ci sono sei province siciliane tra le dieci italiane (tutte meridionali) dove la mobilità è più bassa. A Palermo e Messina, la probabilità di avere da adulto uno status economico migliore di quello che si aveva da bambino è inferiore al 38 per cento. Solo Cosenza fa peggio. Poco più avanti ci sono Siracusa, Trapani, Catania e Agrigento.
Italia, eppur si muove
Se si guardano i dati nazionali, l’Italia pare non brillare per mobilità. Chi occupa la quinta fascia di reddito alla nascita, ha solo il 14 per cento di probabilità di ritrovarsi nella prima una volta cresciuto. Chi è nato nella più elevata, invece, ha esattamente il doppio delle probabilità di rimanerci (e meno di una su dieci di precipitare nell’ultima). In sintesi: si sale poco, ma si scende ancora meno. Chi è povero fatica a emergere, chi è benestante lo sarà. A un primo sguardo, quindi, sembra confermata la rottura dell’ascensore sociale italiano. E invece no. A essersi inceppato è solo quello del Sud, non dell’intero Paese. Ed è proprio questo uno degli aspetti più interessanti dello studio, che infatti si intitola “And yet it moves”, “Eppur si muove”.
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Nord meglio della Scandinavia
I valori medi, infatti, nascondono lo strappo. Le dieci province dove la mobilità “a salire” è più elevata sono tutte settentrionali. E tutte vantano una “quota” ben oltre il 50 per cento. In altre parole: da Brescia a Udine, da Milano a Reggio Emilia, i figli hanno più probabilità di salire qualche piano che non di fermarsi su quello dei propri genitori. A Bolzano si supera addirittura il 60 per cento. C’è quindi, affermano i tre economisti, un Nord “più egalitario”, sopratutto in Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna. Acciari, Polo e Violante sottolineano infatti che nell’Italia settentrionale i livelli di mobilità verso l’alto (cioè chi migliora la propria condizione economica rispetto a quella di nascita) “superano quelli della Scandinavia”, spesso indicata come esempio virtuoso. Ogni passo verso Sud è invece un passo verso l’immobilismo socio-economico. Se la mobilità tra generazioni fosse un colore, sarebbe blu scuro al Nord, degraderebbe verso il turchese la Centro per sfumarsi in un celeste tenue da Roma in giù.
Sud paralizzato
Lo studio porta con sé una buona e una cattiva notizia. “Da una parte – scrivono gli autori – il quadro è meno pessimistico” rispetto a quanto emerso da studi precedenti, che “tendevano a rappresentare l’Italia come una società paralizzata”. Dall’altra, però, “rivela acute diseguaglianze all’interno del Paese”. Con il Nord (specie Nord-Est) definito “terra di pari e abbondanti opportunità” e il Sud “terra dove il rango sociale persiste di generazione in generazione”.