Tra i botti di fine anno, la Regione ha infilato anche la vendita di un pezzo del suo patrimonio immobiliare. Peccato che nessuno sappia quanto valga. Poco importa, tanto a fare il prezzo sarà Palazzo d’Orléans. A vendere è infatti la Regione e a comprare sarà il Fondo pensioni Sicilia (controllato dalla Regione). Si può? Qualche dubbio c’è. Lo hanno sollevato il M5S (con un’interrogazione e un esposto alla Corte dei Conti), la stessa Corte negli ultimi due giudizi di parificazione. E anche alcuni assessori dell’attuale governo, che ai tempi dell’amministrazione Crocetta avevano definito l’operazione “una truffa”.
Dalla Regione al fondo pensione
Due giorni dopo Natale, una delibera di giunta ha dato il via libera alla vendita della quota che la Regione detiene nel Fiprs (Fondo immobiliare pubblico Regione siciliana). Di pubblico, oltre al nome, c’è rimasto solo il 35 per cento. Ad acquisirlo sarà il Fondo pensioni Sicilia, l’ente che gestisce quiescenze e buonuscite del personale regionale. Era tutto previsto da una norma del maggio 2017, che indicava anche il prezzo della quota: 22,7 milioni di euro. In questo modo, la Regione fa cassa e scarica una parte del patrimonio sul conto di pensionati presenti e futuri. In teoria, potrebbe anche valorizzarsi (garantendo quindi un incasso netto al fondo). Ma nessuno sa in che condizioni sia e quanto valga.
Il giudizio della Corte dei Conti
Già nel giudizio di parificazione relativo al 2017, la Corte dei Conti aveva mosso parecchi critiche. Prima di tutto perché l’operazione inficia il principio stesso con cui il Fondo è stato creato: “L’istituzione ha essenzialmente lo scopo di separare le entrate previdenziali dal bilancio regionale, per evitare che possano essere utilizzate per sopperire ad esigenze di cassa”. L’ente, nato nel 2009, serve proprio per distinguere le risorse dei pensionati da quelle del bilancio siciliano, evitando così la tentazione di utilizzarle. Se però il fondo diventa compratore, allora la distinzione salta. E potrebbe essere un rischio. Ci sono infatti “plurimi aspetti problematici”: la valutazione degli immobili sarebbe stata fatta da “organi non competenti tecnicamente”, mancano “criteri specifici e predeterminati su cui fondare le valutazioni”, c’è “incertezza sull’identificazione e valutazione degli immobili”, “sul loro stato di manutenzione e adeguamento alla nuova destinazione d’uso”. E ancora: visto che venditrice e compratore sono legati, è possibile una “supervalutazione che non tiene conto dell’andamento negativo del mercato immobiliare”. In pratica, il fondo potrebbe pagare troppo, compromettendo ritorni futuri.
“Norma da abrogare o modificare”
“In definitiva – spiega la Corte dei Conti – con questa operazione di trasferimento al fondo di immobili non meglio identificati e valutati e la cui redditività è incerta, si rischia di trasferire liquidità dal fondo stesso al bilancio regionale, mettendo in pericolo la futura sostenibilità del sistema”. Tanto da non escludere un “impatto negativo sull’integrità del patrimonio del fondo”. Che, meglio sottolinearlo, non è speculativo ma raccoglie “i contributi versati dai lavoratori”. A questo proposito, i giudici contabili ricordano la parole della Consulta: “La Corte Costituzionale ha affermato che le somme provenienti dalla contribuzione dei lavoratori non dovrebbero essere mai utilizzate, né direttamente né indirettamente, per sopperire a strutturali e/o momentanee deficienze di cassa”. Per questi motivi, concludeva la Corte dei Conti nel 2018, “non si può che auspicare che la disposizione normativa venga abrogata e/o comunque modificata”.
Leggi anche – Operazione Tafazzi: così la Regione smentisce se stessa
“Effetti sugli equilibri del sistema pensionistico”
L’abrogazione non c’è stata, alcune modifiche sì. Ma, nel giudizio di parificazione pubblicato poche settimane fa, la Corte dei Conti ribadisce quanto detto l’anno precedente: “La riscrittura normativa non supera le osservazioni mosse in occasione della originaria formulazione”. I problemi restano. Restano le incertezze sulla valutazione degli immobili, che non andrebbero solo pesati in base al “valore patrimoniale intrinseco, ma anche del grado di redditività e di liquidabilità”. Cioè come e quanto in fretta possano fruttare. E restano, soprattutto, “potenziali effetti sugli equilibri del sistema pensionistico”. Ma c’è anche un altro nodo, quello dell’intreccio tra chi vende e chi compra. In questo caso, non proprio due sconosciuti.
Se la Regione vende a se stessa
Visti gli anni trascorsi dalla prima norma, la valutazione del 35 per cento del Fiprs va ritoccata. L’importo indicato dalla giunta Crocetta e che il Fondo pensioni dovrà sborsare (22,7 milioni) sarebbe quindi un acconto, in attesa di quantificare la cifra esatta. Per la Corte dei Conti, però, nella vendita “continua ad essere negletta l’autonomia decisionale del Fondo pensioni Sicilia, i cui organi dovrebbero poter valutare in autonomia se e con quali procedure realizzare gli investimenti immobiliari”. I giudici ricordano che “gli immobili conferiti al Fondo devono essere valutati da un’agenzia indipendente pubblica”. A farlo sarà una commissione trilaterale, che in teoria dovrebbe rappresentare sia venditore che acquirente. In teoria, perché al tavolo siederanno un rappresentante dell’assessore all’Economia (cioè la Regione), uno del Dipartimento regionale delle finanze e del credito (cioè la Regione) e uno del Fondo pensioni (cioè un ente controllato e con vertici nominati dalla Regione, seppure con autonomia gestionale).
Quando per Falcone era “una pagliacciata”
Sulla vendita della quota del Fiprs, il 9 gennaio, il deputato regionale M5S Giovanni Di Caro ha presentato un’interrogazione, poi segnalata anche alla Corte dei Conti: “Il governo non ha ancora proceduto a redigere l’inventario dei beni immobili”. L’operazione sarebbe “senza trattativa, un’imposizione sull’acquisto da parte di chi vende, decidendo anche sul prezzo”. Si dirà: Di Caro è all’opposizione e fa opposizione. Vero. Ma la sua visione (non distante da quella della Corte dei Conti), è simile a quella che avevano alcuni esponenti dell’attuale maggioranza. Alla fine dell’aprile 2017, quando la giunta Crocetta aveva portato in aula il provvedimento, Salvatore Lentini lo aveva definito “un pacco” al Fondo Pensioni. Che di fatto non decideva nulla, perché “è gestito dal governo della Regione”. Contrari anche tre deputati poi diventati membri della giunta Musumeci: Salvatore Cordaro, assessore del Territorio e dell’ambiente, paragonava la vendita a un quiz: “Cos’è, Rischia tutto?”. Bernadette Grasso, titolare delle Autonomie locali e della funzione pubblica, parlava di “operazione incerta”. Marco Falcone, oggi assessore alle Infrastrutture, era arrivato a definirla una “pagliacciata” e una “truffa al Fondo pensioni”. Quante cose cambiano in tre anni.