Tutto è relativo: basta imboccare un’autostrada o provare a prendere un treno in Sicilia per capirlo. Trenta chilometri nell’isola sono più lunghi di trenta chilometri in Lombardia o in Piemonte. E non è questione di distorsioni spazio-temporali: il problema si chiama infrastrutture. Che non ci sono o che – spesso – funzionano male. Tra i tanti dati presentati nel rapporto Irfis-Svimez “La Sicilia, il Mezzogiorno i ritardi e le opportunità di investimento”, uno ricorda quanto la Sicilia sia in ritardo. “L’indice sintetico di competitività infrastrutturale” (cioè un numero che sintetizza dotazioni e qualità dei servizi) è 29,8. Detto così, da solo, è solo una cifra. Proprio perché tutto è relativo, per comprenderla bisogna metterla in prospettiva: esprime l’efficienza delle infrastrutture in confronto alla media europea, fissata a quota cento. In pratica, treni, voli e autostrade siciliani sono a un livello che vale meno di un terzo.
L’isola isolata
Attenzione: cento è solo la media, non l’eccellenza. Quella è lontana anni-luce. Il Lazio, ad esempio è a 129,3 e la Lombardia a 124,7. Si dirà: tutte le strade (e le ferrovie e gli aerei) portano a Roma (e a Milano). Ma il distacco della Sicilia è netto anche con la maggior parte delle regioni del Sud, che di certo – come sottolinea lo Svimez – non brillano. Il Mezzogiorno, infatti, viaggia intorno a quota cinquanta, la metà della media europea. Senza guardare alle cinque regioni italiane che superano i cento punti, quanto a competitività delle infrastrutture la Sicilia si lascia dietro solo la Sardegna (che non arriva a 20). Non è molto distante dalla Basilicata (31,5). La Calabria è già qualche passo avanti (36,9). Tutte le altre sono, quantomeno, oltre i 50 punti. Pesa, di certo, l’insularità. Ma il mare intorno non spiega tutto: la lentezza non tocca solo i servizi da e per Sicilia ma anche quelli che collegano aree interne.
Una vita in coda
Possono sembrare numeri freddi. Non lo sono. Dietro ogni punto ci sono ore passate in macchina, binari deserti, treni che procedono a passo d’uomo e voli che mancano. L’indice sintetico di competitività infrastrutturale si compone infatti di quattro tipi di “accessibilità”: autostradale, ferroviaria, aerea e alta velocità. Fatta cento la media delle performance europee, nelle autostrade la Sicilia si ferma a 18,4. Il numero riflette “il tempo di percorrenza”, valutato anche in base al numero dei residente (per fare in modo che l’affollamento pesi meno sulla valutazione delle infrastrutture). In pratica, al netto di una popolazione diversa, per andare dal punto A al punto B dell’isola serve quattro volte il tempo richiesto in Toscana per coprire la stessa distanza.
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Treni e voli
Pessimo è anche il punteggio che indica il tempo di percorrenza sulla rete ferroviaria: 33,8. Nelle regioni in piena media europea, come il Veneto, serve un terzo del tempo per prendere un treno e arrivare a destinazione. Alta velocità (intesa in questo caso come servizio che colleghi partenza e meta a una media oltre gli 80 km/h): non pervenuta. Il punteggio è 11,3. Solo la Basilicata è a livelli simili, mentre il resto del Paese viaggia a un altro ritmo. In questo elenco di cifre cupe, sembra quasi (quasi) un buon risultato l’indice di accessibilità aerea: 26,1. Il punteggio resta basso, ma è superiore a tutte le altre regioni del sud. Deriva dal “numero di voli giornalieri passeggeri, accessibili entro 90 minuti di percorrenza stradale”. La presenza dei quattro aeroporti facilità le cose. Senza toccare il nodo prezzi (altro argomento aperto) il punto è che tutte le altre regioni (fatta eccezione per la Sardegna) hanno alternative ferroviarie e autostradali ben più solide rispetto alla Sicilia. E dialogano tra loro anche grazie all’alta velocità: ormai capillare al nord, lascia quasi del tutto sguarnita la punta d’Italia e le isole.
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Le infrastrutture e la trappola demografica
La carenza di infrastrutture pesa sullo sviluppo di intere aree e condiziona la vita delle persone. Anzi, fa molto di più: spinge gli abitanti fuori dalla regione. Lo Svimez parla infatti di “cittadinanza dimezzata”. E il ministro per il Sud Giuseppe Provenzano ha sottolineato il legame tra autostrade, treni e spopolamento. Il problema – ha affermato durante un evento all’università di Catania – non è “la migrazione in sé”, ma il fatto che senza infrastrutture si trasforma “in un’andata senza ritorno che rompe gli equilibri interni della popolazione”. Oltre al lavoro, serve muoversi in modo efficiente. Altrimenti chi parte resta dov’è. Nutrendo le altre regioni e impoverendo la Sicilia. Che così si ritroverebbe incastrata in quella che il rapporto ha definito “trappola demografica”.
“Uno scenario insostenibile”
Le persone che sono emigrate dalla Sicilia sono state 483 mila tra il 2002 e il 2017, per il 16,5 laureate e per metà tra i 15 e i 34 anni. Il saldo al netto dei rientri (cioè chi oltre regione ci è rimasto) è negativo per 198 mila unità. In sostanza, è come se in 15 anni si fossero trasferiti altrove tutti gli abitanti di Ragusa, Trapani e Agrigento. Una diaspora fatta da un popolazione mediamente più istruita e giovane. Perché, tra quei 198 mila, il 70 per cento ha meno di 34 anni e uno su quattro è laureato. “La ripresa dei flussi migratori rappresenta la vera emergenza meridionale”, dice lo Svimez. Andando avanti di questo passo, entro il 2065 in Sicilia “calerà la popolazione in età da lavoro” del 36 per cento. Cioè 1,2 persone in meno. Una parte sarà emigrata, l’altra in pensione. Chi produce altrove e chi non produce più. “Uno scenario insostenibile”.