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Liquidità, imprese a secco: a Trapani il rischio più alto

Secondo il rapporto di Bankitalia, il Covid - pur avendo un impatto sanitario minore - sta prosciugando le casse: il pericolo illiquidità è più alto rispetto al resto del Paese

Il problema non è (tanto) quello che è successo durante il lockdown. Il problema, per le imprese siciliane, è quello che succederà tra poco. Tra quelle che hanno dovuto fermarsi a causa del Covid, il 24,1 per cento è “a rischio di illiquidità”. Un valore – spiega Bankitalia nel suo rapporto sull’economia siciliana – superiore a quello del Mezzogiorno e dell’Italia (rispettivamente pari al 22,4 e al 21,5 per cento)”. In sostanza, le imprese non hanno abbastanza soldi in cassa per andare avanti. Il problema non è tanto l’equilibrio finanziario di medio termine ma la discrepanza di entrate e uscite: gli incassi (che non ci sono), gli aiuti (che arrivano in ritardo) e i costi (che invece non aspettano). Banca d’Italia conferma quindi quello che già altri report avevano affermato: anche se l’impatto diretto del Covid-19 è stato inferiore rispetto ad altre regioni (sia dal punto di vista economico che sanitario), nell’isola potrebbero chiudere più imprese che altrove. Un paradosso? Non proprio. A chi è debole, basta anche un malanno di stagione per lasciarci penne.

Cosa vuol dire essere illiquidi

“La sospensione delle attività non essenziali, imposta tra il 26 marzo e il 3 maggio 2020 – spiega il rapporto – ha sottoposto le aziende coinvolte a un elevato stress finanziario”. Le imprese non hanno fatturato ma hanno dovuto far fronte a “esborsi finanziari non rinviabili”. Per capire cosa significhi nei prossimi mesi, Bankitalia ha elaborato un modello che (tenendo presente anche moratorie del credito e cassa integrazione previsti dai decreti anti-Covid) stima l’evoluzione dei flussi di cassa mensili delle imprese. E ha così identificato quelle a rischio di illiquidità. Cioè quelle che, “dopo un periodo di sospensione dell’attività pari a un mese, registrano un valore negativo delle disponibilità liquide”. In Sicilia, come detto, la percentuale è più alta rispetto alla media italiana.

Trapani la provincia meno “liquida”

Anche a livello provinciale ci sono forti differenze. Catania, con il 21,6 per cento delle imprese a rischio illiquidità, è la provincia siciliana con la quota più bassa. Ed è in linea con la media del Paese. Siracusa ed Enna sono attorno al 24 per cento. La percentuale sale gradualmente per Messina, Palermo, Caltanissetta, Ragusa e Agrigento. E a Trapani arriva al 29,6 per cento. La quota di imprese a rischio di illiquidità non presenta differenze marcate a livello di dimensioni: colpisce grandi e piccole. Varia invece in base al settore, con il terziario molto più esposto rispetto a costruzioni e manifatturiero. In particolare, tra le strutture ricettive e la ristorazione, una su tre è a rischio illiquidità. E in queste condizioni, la probabilità di fallimento si moltiplicano. Già lo Svimez, d’altronde, lo aveva sottolineato: il Covid ha colpito meno ma il rischio default al Sud è quadruplo rispetto al centro-nord.

Leggi anche – Se il decreto Liquidità penalizza il Sud non è colpa del Nord

Perché il credito scarseggia

Se la liquidità scarseggia, cosa può fare un’azienda? Se non si torna a incassare, è costretta ad attingere a risorse proprie o chiede un prestito. E qui si inserisce l’altro tema, anche questo molto dibattuto. Il credito agevolato previsto dal governo è andato in gran parte al Nord. I critici – tra i quali il vicepresidente della Regione Gaetano Armao – affermano che non si possa dare la stessa medicina a due malati diversi. In pratica, le imprese siciliane non possono permettersi nuovi debiti e, spesso, non hanno neppure il merito creditizio sufficiente per riceverlo. Che le imprese siciliane abbiano ricevuto poco dalle banche è un fatto. Ma, oltre alla difficoltà di accesso, alla debolezza strutturale e alla precisa volontà di molte aziende, Bankitalia aggiunge un altro elemento: “In Sicilia, prima della diffusione dell’epidemia, i prestiti non in sofferenza erogati da banche e società finanziarie alle imprese dei settori con attività sospesa rappresentavano il 35,6 per cento del credito al settore produttivo, contro il 43,9 per il Mezzogiorno e il 51,6 per il complesso del Paese”. La differenza “riflette la maggiore concentrazione dei prestiti in comparti limitatamente interessati dalla sospensione delle attività, come i trasporti, la chimica e farmaceutica e il commercio, tra cui quello di beni alimentari”. In altre parole: chi di solito chiede prestiti, in questi mesi non si è fermato o ha rallentato meno.

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Paolo Fiore
Paolo Fiore
Leverano, 1985. Leccese in trasferta, senza perdere l'accento: Bologna, Roma, New York, Milano. Ho scritto o scrivo di economia e innovazione per Agi, Skytg24.it, l'Espresso, Startupitalia, Affaritaliani e MilanoFinanza. Aspirante cuoco, sommelier, ciclista, lavoratore vista mare. Redattore itinerante per FocuSicilia.

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