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Moda, in Sicilia fallisce un negozio ogni nove ore

Tra febbraio e marzo, Confesercenti ha registrato il fallimento di 159 attività. E l'impressione è che il peggio debba ancora venire. Tiene chi ha puntato sull'online

Ci sono i negozi che chiudono. E poi ci sono quelli che falliscono. Tra febbraio e marzo, in Sicilia 159 punti vendita specializzati in moda e abbigliamento hanno abbassato la saracinesca per l’ultima volta. In sessanta giorni. Un fallimento ogni nove ore, secondo i dati di Confesercenti, in quello che pare essere solo un lugubre antipasto di quello che potrebbe essere. Anche se il coronavirus e il suo timore erano presenti già a febbraio, è solo dall’11 marzo che è stata imposta la chiusura dei negozi non essenziali. Gli effetti di una serrata prolungata (per tutto aprile? Fino a giugno?) potrebbe fare molte più vittime. Perché un conto è reggere un mese (per quanto proficuo come può essere marzo) e un altro è farlo per una stagione intera, già in ogni caso compromessa.

Le stime di Confesercenti

Le stime di Confesercenti sono sempre state cupe. Secondo l’associazione, il prolungamento delle chiusure fino al 13 aprile costerà al sistema Italia altri 5 miliardi di euro di consumi e quasi 8,5 miliardi di Pil, che si vanno ad aggiungere ai 30 miliardi di consumi e 55 miliardi di Pil già bruciati fino a ora. “Senza un intervento contenitivo di grande respiro, si rischia di arrivare a fine anno con una contrazione dei consumi fino a 83 miliardi e con una caduta del Pil del 9 per cento”. In un’intervista ad Adnkronos, il presidente di Confesercenti Sicilia, Vittorio Messina, ha stimato che “almeno il 40 per cento delle attività imprenditoriali dell’isola, quasi sicuramente, finita l’emergenza, non riuscirà a riaprire”. Guardando al solo settore della moda, il responsabile del comparto per Confesercenti Catania, Claudio Miceli, ha ipotizzato (“nel migliore dei casi”) un calo del fatturato del 50-60 per cento per la stagione primavera-estate 2020 e del 30-40 per cento per quella autunno-inverno 2021.

L’importanza di essere (anche) digitali

Chicco Amato, titolare di Pandini, società che gestisce tre negozi tra Catania e Siracusa, stima un calo annuo del 30 per cento. Ma dipenderà da quanto i punti vendita resteranno chiusi. Federico Giglio, proprietario del gruppo che porta il nome della sua famiglia, azzarda previsioni, ma dice comunque che, “con i negozi fisici fermi, l’impatto sarà importante”. Per la maggior parte dei negozi, l’avvenire pare più grigio rispetto a quello di Pandini e Giglio. Entrambi, infatti, hanno da tempo puntato molto sull’e-commerce. E grazie alle vendite online si stanno tenendo a galla. “Chi lavorano sull’online potrà sopravvivere”, afferma Claudio Miceli. “Per chi ha una piattaforma personale, piccola, è difficile emergere. E se ti appoggi a quelle più grandi, in margini si assottigliano”. Al netto di difficoltà e controindicazioni, Miceli non ha dubbi sul fatto che le vendite digitali “sono destinate a spuntarla”: “In questo momento gli e-commerce hanno il freno a mano tirato, ma a breve chi lavora sull’online avrà dei vantaggi”.

Giglio: “E-commerce schizofrenico”

Attenzione però a non pensare che, adesso, gli e-commerce dell’abbigliamento stiano facendo soldi a palate. “È più facile perché vendendo online ci rivolgiamo al mondo”, spiega Giglio. “Si tratta di una pandemia, ma alcune aree, come Asia e Medio Oriente, hanno già superato la fase più acuta e stanno tornando a comprare. Europa e Stati Uniti, invece, sono fermi”. Quindi non basta avere un negozio digitale: in piena epidemia e in clausura, magari con la preoccupazione di perdere il lavoro, i potenziali clienti pensano ad altro. Non comprano. Nelle ultime settimane, il mercato della moda online è stato “schizofrenico”, dice Giglio. Il momento peggiore sembra alle spalle. C’è stato quando la Cina era ancora bloccata e il coronavirus stava esplodendo nel resto del mondo. “Nelle ultime settimane le vendite stanno migliorando, recuperando quanto perso”. Restano però ancora un rallentamento “attorno la 20 per cento”.

Leggi ancheE-commerce, Giglio.com e gli altri: la Sicilia che vende online

Amato: “Non tutto si vende online”

“L’e-commerce ci stanno dando ossigeno”, conferma Amato. “I negozianti che non hanno un canale di vendita online fanno più fatica”. Ma, anche in questo caso, non basta “internet” per risolvere la più pesante crisi commerciale del dopoguerra. I suoi tre negozi vendono sia attraverso il proprio sito sia su piattaforme esterne. “Tutti i siti hanno promozioni del 20-30 per cento. Noi contrattiamo con le aziende per ottenere sconti in grado di darci dei margini anche in regime di ribassi. Alcune aziende sono più aperte, altre molto più rigide”. Con l’avvio delle promozioni, le vendite online “hanno ripreso a crescere” dopo aver accusato un calo, dovuto soprattutto alla frenata del mercato statunitense. C’è poi un altro punto: l’e-commerce non è mai una versione digitale del punto vendita fisico. Ha logiche diverse e vende cose diverse. “Online – spiega Amato – alcuni prodotti funzionano e altri no”. Il divieto di feste e cerimonie ha privato i commercianti della moda di un bel pezzo di fatturato. Ma “quei prodotto non si vendono online”, dove invece “vanno articoli più sportivi, giovani, fashion, come le sneakers o le borse”.

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Paolo Fiore
Paolo Fiore
Leverano, 1985. Leccese in trasferta, senza perdere l'accento: Bologna, Roma, New York, Milano. Ho scritto o scrivo di economia e innovazione per Agi, Skytg24.it, l'Espresso, Startupitalia, Affaritaliani e MilanoFinanza. Aspirante cuoco, sommelier, ciclista, lavoratore vista mare. Redattore itinerante per FocuSicilia.

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