A marzo 2020, la vendita al dettaglio ha perso un quarto del fatturato rispetto allo scorso anno. Chi compra, un po’ perché i negozi sono stati chiusi e un po’ perché pensa alle prime necessità, spende per gli alimenti e bada poco ad altro. Ne fa le spese anche la Gdo, ma a pagare sono soprattutto i piccoli commercianti. Ne esce bene l’e-commerce. Ma se è vero che un’immagine può valere più di tante parole, un grafico a strapiombo racconta le dimensioni delle crisi meglio di dichiarazioni e numeri.
Il crollo del commercio al dettaglio
È bastato marzo per affondare un trimestre, che perde quasi il 6 per cento anno su anno. Diminuiscono le vendite dei beni non alimentari (-11,6 per cento in valore e -11,5 per cento in volume), mentre quelle degli alimentari crescono (rispettivamente, +2,0 per cento in valore e +1,9 per cento in volume). La sfilza di “meno”, sì, fa impressione. Ma la dimensione del problema non è chiara fino a quando non si guarda questo grafico. Cento è il valore della merce venduta nel 2015. Punto più, punto meno, niente scossoni per anni. Poi è arrivato il coronavirus
Vince solo l’e-commerce
Dove si compra? I supermercati hanno aumentato le vendite di prodotti alimentari del 14 per cento. Ma, allo stesso tempo, la grande distribuzione ha visto crollare tutte le altre categorie. Nel complesso, quindi, anche la Gdo (dopo un febbraio brillante) perde. Niente a che vedere, però, con la crisi delle attività che operano su piccole superfici (-28,2 per cento) e di quelle che vendono fuori dai negozi (-37.9 per cento). Reggono i negozi alimentari di quartiere (-1 per cento). Se i portafogli sono concentrati sul cibo e sulle grandi attività, è normale che gli esercizi specializzati soffrano di più. Tra i sommersi e i salvati, afferma l’Istat, “il commercio elettronico continua ad essere l’unica forma distributiva in costante crescita”.
I settori che hanno sofferto di più
Per quanto riguarda i beni non alimentari, “si registrano variazioni tendenziali negative per tutti i gruppi di prodotti”. Non si salva nessuno, anche perché a marzo sono iniziate le chiusure. Le diminuzioni maggiori riguardano abbigliamento e pellicceria, giochi, giocattoli, sport e campeggio e calzature, articoli in cuoio e da viaggio. Il calo minore si registra per i prodotti farmaceutici, giù nonostante le farmacie siano sempre rimaste aperte. Considerando i tempi del lockdown, la serrata di marzo è stata netta ma non ha coperto l’intero mese. Ad aprile, quindi, c’è da aspettarsi l’azzeramento di molte attività.
Piccolo è peggio
Coerenti con i numeri che certificano la forte crisi delle “piccole superfici” e dei negozi specializzati, i dati dell’Istat certificano che ad accusare le perdite maggiori sono state le piccole attività. Quelle fino a cinque addetti hanno perso, in media, un quarto del fatturato a marzo. Mentre le imprese con più di sei addetti dimostrano di aver sofferto meno. Si tratta, in ogni caso, di perdite enormi.
Il confronto tra Italia e Area euro
Se dalle micro imprese si guarda la macroeconomia, lo scenario è altrettanto fosco. Non solo in Italia. “A causa del perdurare della pandemia e delle relative misure di contenimento, continua a essere pesantemente negativo”, afferma l’Istat. Nell’area dell’euro, si stima una contrazione congiunturale del 3,8 per cento. La flessione in Italia è stata maggiore (con un’inchiodata della produzione industriale), così come oltre la media sono quelle di Spagna (oltre il 5 per cento) e Francia (che sfiora il sei). Prevalgono “gli effetti deflazionistici”: meno domanda, prezzi più bassi, soprattutto nel settore energetico. Stanno peggiorando anche gli umori di cittadini e imprenditori. Non è un indice di poco conto, perché spesso anticipa condizioni economiche più severe. D’altronde, è la stessa Commissione Ue a vedere nero: il Pil dell’area euro dovrebbe contrarsi del 7,7 per cento quest’anno. Vuol dire che il calo registrato di marzo è, in confronto, solo l’inizio della caduta.