È l’ingrediente principale di uno dei piatti simbolo della Sicilia – l’arancina o arancino che dir si voglia – ma da oltre un secolo era sparito dai campi dell’Isola. Da un lustro a questa parte, il riso è nuovamente coltivato dai siciliani. “Siamo partiti nel 2016 con sei ettari, quest’anno siamo arrivati a 150”, dice a FocuSicilia Sebastiano Conti, agricoltore e titolare dell’azienda Agribio Conti nella piana di Lentini, al confine tra le provincie di Catania e Siracusa. Ai legumi e ai cereali prodotti sin dal 1988, Conti ha deciso di affiancare il riso, con un particolare metodo di coltivazione. “Non allaghiamo i campi come avviene al Nord, ma innaffiamo grazie a uno speciale sistema di livellamento del terreno”. Risultato: meno consumo di acqua, meno necessità di manodopera, minori costi di produzione. Un metodo particolarmente interessante, in un momento in cui l’Italia è alle prese con il problema della siccità.
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Verso una filiera tutta siciliana
Il raccolto di Conti varia a seconda della qualità. “Il cosiddetto riso tondo, il più diffuso, frutta circa 80 quintali per ettaro. Stessa cifra per il riso rosso o nero – detto anche Venere – mentre il carnaroli e l’arborio fruttano circa 50 o 60 quintali per ettaro”. Una volta raccolto, il riso va lavorato attraverso un processo detto “sbramatura”. “Su cento chili di prodotto grezzo, la resa è di 60 chili per il tondo e di 50 per l’arborio”, spiega l’agricoltore. Al momento non esistono stabilimenti per la sbramatura in Sicilia, e Conti deve mandare il riso a un’azienda di Vercelli “con costi non indifferenti”. Presto però le cose cambieranno. “Stiamo aprendo uno stabilimento a Scordia, nel catanese, nel quale potremo sbramare e confezionare il prodotto”. Un investimento da circa 700 mila euro, aggiunge Conti, “che però ci permetterà di avere una filiera interamente siciliana”.
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Risparmi fino al 50 per cento
La tecnica utilizzata dall’agricoltore si basa su un principio semplice. “I nostri campi sono disposti in leggera pendenza, in modo che possiamo innaffiare dall’alto e far scorrere l’acqua su tutto il terreno”. In questo modo, spiega Conti, “la pianta riceve l’irrigazione di cui ha bisogno senza necessità di allagamento della risaia, come fanno al Nord”. La semplicità del principio non deve ingannare. “La pendenza è stata ottenuta con un macchinario al laser, inoltre il terreno deve avere una certa consistenza, per evitare che quanto irrigato si disperda”. Oltre all’acqua, questo metodo consente di risparmiare su costi di produzione e manodopera. “Ogni ettaro ci costa circa 1.300 euro, circa il 30 per cento in meno rispetto al Nord. Per gestire il campo, inoltre, serve circa metà del personale usato per una risaia allagata”.






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Il problema dello spreco d’acqua
Per arrivare a questi risultati sono serviti investimenti cospicui. “Per fare un esempio, abbiamo acquistato una macchina da mezzo milione di euro per la raccolta”, spiega Conti. I privati hanno bisogno anche dell’intervento delle Istituzioni. La preoccupazione principale, paradossalmente, è legata proprio all’acqua. La Sicilia non sta soffrendo la siccità come il Nord, ma nell’ultima riunione convocata dalla Regione sono stati denunciati “gravi problemi sulle reti di distribuzione”. In altre parole, l’Isola fa i conti con acquedotti e tubature vetusti, che portano a consistenti sprechi. “Gli invasi sono pieni, ma le condotte hanno bisogno di manutenzione”, conferma Conti. L’agricoltore spera che gli interventi promessi da Palermo “arrivino in fretta, per evitare di compromettere il nostro settore”.
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Un’opportunità per il Nord
A proposito di siccità, la coltivazione senza allagamento potrebbe tornare utile al Nord. Secondo gli ultimi dati Istat, degli oltre 227 mila ettari coltivati a riso in Italia, circa il 93 per cento si trova nel Settentrione, in particolare tra Piemonte e Lombardia. Proprio le zone interessate dalla siccità delle ultime settimane. “Nel pavese alcune risaie sono completamente asciutte, in altre zone il livello si è abbassato notevolmente”, dice al nostro giornale l’agronomo Massimo Biloni, che si occupa di “ibridare” il riso per adattarlo ai diversi terreni. Per l’esperto “non ci sono danni irreparabili”, ma se la siccità dovesse continuare “non è escluso che parte del raccolto possa perdersi”. In questo contesto, il metodo sperimentato in Sicilia “potrebbe rappresentare una valida alternativa”, ma per applicarlo “serve preparare i campi, come ha fatto Conti”.
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Un mercato in crescita
Anche senza un’eventuale crisi delle risaie nordiche, lo spazio di mercato per il riso siciliano sembra esserci. Secondo i dati elaborati dall’Ente nazionale risi di Milano, nella stagione 2020/2021 il nostro Paese ha prodotto circa 927 mila tonnellate di cereale – in prevalenza riso tondo e medio – e ha importato dall’estero circa 155 mila tonnellate – soprattutto di riso lungo, meno diffuso in Italia. La produzione nazionale, insomma, non basta. “Il nostro prodotto è apprezzato anche al Nord, segno che non ha niente da invidiare a quello prodotto in Piemonte e Lombardia”, dice Conti. L’obiettivo per il futuro, ribadisce l’agricoltore, è quello di riportare in Sicilia l’intera filiera, “per fare in modo che i clienti possano acquistare un riso interamente prodotto, lavorato e confezionato da noi”.