Dal 1936 carichiamo la benzina di tasse. La prima ‘accisa’ fu decisa in pieno Ventennio per coprire le spese del conflitto in Etiopia. Però, una volta finita la guerra d’Africa, nessuno osò togliere questa particolare imposta sui carburanti, che da speciale divenne ordinaria. La stessa speciale storia si è ripetuta altre 18 volte, fino a pochi anni fa, quando nel 2014 anche il governo Letta aggiunse all’elenco l’ennesima accisa per assicurare la necessaria copertura finanziaria al decreto Fare. Con lo stesso espediente, in 87 anni abbiamo finanziato emergenze legate a varie calamità naturali (Vajont, alluvione di Firenze, terremoti del Belice e in Friuli, Irpinia, Abruzzo, Emilia), un paio di guerre (Libano, Bosnia) e qualche altra necessità straordinaria, per scelte politiche d’emergenza che si sono stratificate sul prezzo dei carburanti. Fino al punto che oggi oltre la metà del prezzo è riconducibile alle accise (che hanno un costo fisso per litro) e all’Iva, che grava per il 22 per cento. Se con un colpo di spugna sparissero le tasse, i cittadini pagherebbero oggi la benzina 73 centesimi in meno (il 40 per cento in meno) e il gasolio 62 centesimi (il 33 per cento in meno) rispetto al prezzo attuale. Ma questo è solo un sogno. Realizzarlo significherebbe causare un rilevante ammanco per la finanza pubblica o ingigantire il debito pubblico.

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Le accise e la “coperta” dei conti dello Stato
“Il gettito fiscale cresce grazie a nuove accise – spiega Salvatore Spagano, docente di Economia politica all’Università di Catania – e lo Stato negli anni successivi prepara il proprio bilancio sulla base di questi introiti. Il governo un bel giorno può anche promettere di togliere le accise e rinunciare a quei soldi, ma entreranno meno tasse, si determinerà una riduzione del gettito e bisognerà andare a cercare risorse altrove. Ricordiamo infatti che la coperta è sempre la stessa e la scelta di politica economica è: mi copro più le spalle o i piedi? L’equazione deve sempre rimanere in equilibrio, tutto il resto è propaganda elettorale”. Ridurre o eliminare le accise significa cioè imporre le tasse in qualche altro settore della società, per mantenere in equilibrio i conti dello Stato. “Bisogna chiedersi – aggiunge Spagano – se sia più produttivo ridurre il reddito a chi lavora con i mezzi di trasporto o a chi opera nelle scuole e quindi continuare a tassare i carburanti o, tanto per fare un esempio, il bonus docenti e quindi il mondo dell’istruzione”.

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L’Italia si è affidata quasi solamente alla Russia
Come evidenzia l’economista, “il problema è storico e produttivo. Noi abbiamo commesso negli anni un errore strategico clamoroso. Per una serie di ragioni geopolitiche, tranne per quel 10-15 per cento di produzione interna, abbiamo deciso di affidarci quasi a un’unica produzione, quella della Russia, perché il prezzo era più basso e le relazioni internazionali lo consigliavano. Ma così abbiamo consegnando a un soggetto soltanto il nostro approvvigionamento. E se quel soggetto chiude tutto?”. Un esempio molto vicino ai siciliani è il caso dello stabilimento Isab Lukoil nel petrolchimico di Priolo, a Siracusa, che testimonia l’interdipendenza tra l’Italia e la Russia: la produzione è entrata rapidamente in crisi dopo l’esplosione del conflitto, per il mancato approvvigionamento degli impianti col petrolio russo soggetto a embargo.
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Prendere delle decisioni di politica industriale
Il docente aggiunge anche le “è una questione di scelte di politica industriale. Bisogna decidere cosa privilegiare. Il trasporto su gomma, in una penisola lunga con una produzione disseminata, è tra i primi fattori da considerare”. Le conseguenze di questa mancata lungimiranza sono già scritte nella storia recente e il precedente governo nazionale ha infatti tentato di aprire soprattutto in Nord Africa una serie di nuove relazioni commerciali. Sul prezzo finale, altri Paesi sono intervenuti sul rialzo. Però, “una cosa è intervenire su un prodotto – osserva Spagano – in cui hai poche accise o non ne hai, un’altra cosa è intervenire quando il tuo prezzo è già composto, per il 50 per cento, da tasse da pagare allo Stato”. Tutto questo, lo ricordiamo, in un mercato, quello dei carburanti, con una grande volatilità di prezzo, con pochi produttori e senza grande concorrenza.
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La strada del nuovo debito pubblico
Si può ipotizzare un ritorno ai “prezzi amministrati” anche per i carburanti, ovvero un regime pre-liberalizzazioni, com’era fino a prima del 1991, dove è lo Stato a imporre un tetto ai prezzi? “In realtà è una domanda da un milione di dollari”, per l’economista, “perché l’Economia non è matematica e ci sono una serie di ipotesi tra cui scegliere. Lo Stato, man mano, in Occidente ha cominciato a tendere a ritirarsi dalla sua presenza in Economia. Dopo la crisi di Wall Street del 2008, si è capito che questo approccio era suicida, i mercati non si aggiustano da soli”. Alla domanda se lo Stato debba intervenire, “la risposta è che sì, probabilmente deve intervenire – osserva Spagano – e anche gli economisti più rigorosi tengono a riconoscerlo”. Ma se lo Stato deve mettere soldi per fare qualsivoglia operazione sull’economia, bisogna sempre chiedersi dove prenderli. “Ci sono cinque opzioni. Stamparseli, ovvero tagliarsi le vene, perché aumenta l’inflazione quasi immediatamente”, spiega l’economista, oppure “farsi prestare soldi da uno Stato straniero, e mettersi un cappio al collo, perché si contrae un debito verso una potenza straniera” che potrebbe avanzare pretese. Ancora: aumentare le tasse – come si diceva prima – o ridurre la spesa pubblica facendo dei tagli. Una quinta ipotesi, che per Spagano sarebbe la strada maestra, è “l’emissione di titoli di Stato, però noi abbiamo già un debito pubblico monstre, il terzo del mondo, che compete con quello americano e quello giapponese”. Il rischio è non essere più affidabili sul mercato o riconoscere un tasso d’interesse sempre più alto a chi acquista il debito pubblico italiano. Per chiunque stia al governo, è comunque un rebus dalla difficile soluzione.