Dopo mesi d’attesa, il boxoffice si tinge a tinte rosa shocking e finalmente la bambola per eccellenza, l’iconica Barbie, arriva al cinema, pronta a sfidare due titoli ad alto tasso di testosterone come Indiana Jones e Mission Impossible. Ma la domanda è solo una: Barbie – dichiarata illegale in Arabia Saudita nel 2003 perché non conforme ai dettami dell’Islam – riuscirà a sconfiggere il patriarcato? O per dirlo senza mezzi termini, una bambola siliconata e dalle curve perfette, può essere una credibile icona del femminismo?
La tipica ragazza americana
Barbie impersonifica la ragazza americana della porta accanto. Bionda, atletica e sorridente, nel corso degli anni la bambola è stata un simbolo, un modello e ovviamente, anche una nemica per le femministe perché ha ispirato generazioni di ragazze attorno ad una idea di perfezione praticamente inarrivabile, in cui la bellezza si accompagnava alla mancanza di parola e alla mancanza di sessualità. E dagli anni ’90 in poi, Barbie ha assunto un significato dispregiativo come una “ragazza di bell’aspetto ma priva di spessore e sostanzialmente stupida”, un ideale tossico di femminilità. E non è andata meglio al suo “compagno” Ken, con quel sorriso idiota stampato in viso, il torace pompato, i capelli di plastica e atteggiamenti comici più o meno volontari.
Breve storia di un giocattolo mitico
Barbie – al secolo, Barbie Millicent Roberts – è nata nel 1959, ideata da Ruth Handler, fondatrice della Mattel, che voleva creare una bambola per ragazze come sua figlia Barbara. Ma l’idea di darle un seno sconvolse parte dei possibili acquirenti e ciò la dice lunga sul nostro rapporto con i tabù del sesso. Americana al 100 per cento, la Mattel che la produce stima che siano stati venduti oltre un miliardo di pezzi in 150 nazioni, un business che sta schizzando alle stelle con l’uscita in sala del film interpretato dalla più bionda (e brava) delle attrici/produttrici hollywoodiane, Margot Robbie, già vista in Wolf of Wall Street, Focus e Suicide Squad, diretta da Greta Gerwig, già apprezzata in Ladybird e Piccole donne.
Un inno alla sorellanza “girl-power”
Gerwig cita 2001: Odissea nello spazio nella sequenza d’apertura e racconta questa Barbie perfetta nella sua Casa delle Bambole, un mondo dominato dal rosa ma all’improvviso la bambola inizia ad avere pensieri “non adatti”, riflettendo sulla morte e sul fatto che i suoi piedi, modellati per stare sui tacchi alti, diventano piatti. Barbie vive in un mondo immutabile e perfetto ma un brutto giorno viene allontanata, ritrovandosi nel mondo degli umani – un luogo chiassoso, coatto e senza alcun gusto estetico – a caccia del senso della vita. E la pellicola diventa un inno alla sorellanza, al girl-power in un mondo creato dai maschietti che muovono le bambole come marionette.
Dal tossico al politicamente corretto
Fra gag e risatine, il film ci punzecchia sulle nostre comode poltrone da spettatori, con l’intento di voler smascherare cosa si nasconde dietro il sipario, cosa ci sia sotto il trucco. A ben vedere, Gerwig racconta il rapporto con le Barbie della società, una certa idea tossica sulle donne: belle, sorridenti ma chiuse in delle scatole. Ubbidienti. Certo, nel tempo la Mattel ha provato ha modificare il mito, creando una linea di Barbie in carriera – c’è anche la Barbie astronauta – e la linea Fashionistas con versioni curvy e più politicamente corrette. Ma basterà a smontare il mito della bambola di plastica? Riusciremo ad accettare lo stereotipo e a far trionfare la femminilità, senza “se” e senza “ma”. Questa sì che è (quasi) una mission impossible.