Case rifugio in Sicilia: “Donne sradicate dai loro contesti, un ulteriore trauma”

“Sradicare una donna dalla propria casa e dal proprio contesto rappresenta un ulteriore trauma“. Lo diceAnna Agosta presidente delCentro Antiviolenza Thamaia di Catania. Può essere considerata un’osservatrice privilegiata delle case rifugio in Sicilia perché segueogni anno circa 250 casi di donne che hanno subìto violenza. E così si ritrova a doversi confrontare con queste strutture a indirizzo segreto che forniscono un alloggio alle donne vittime di maltrattamenti e ai loro bambini, gratuitamente e indipendentemente dal luogo di residenza. Unalloggio “sicuro”ma “sarebbe forseauspicabile fosse l’uomo a lasciare la casase le condizioni, fatta una valutazione del rischio puntuale ed efficace, lo permettessero. In ogni caso sempre meglio strutture non lontane così che la donna possa continuare a vivere nel suo contesto, portare i figli a scuola,continuare a lavorare, e dunque non perdere l’indipendenza: cosa che accade quando vengono collocate in strutture molto lontane”. Leggi anche –Case rifugio: donne per le donne contro la violenza. Lo Stato aiuta pagando Ilrapporto Istat sulle case rifugiorileva che quasiuna donna su cinque nelle Isole lascia la struttura per tornare dal maltrattante(dato più alto per macroarea). “Non c’è da meravigliarsi del fatto che una donna che entra in una casa rifugio poi voglia uscirne – spiega Agosta –Chi conosce il fenomeno sa che sono dinamiche assolutamente normali. La donna va a denunciare e compie una scelta in una situazione emergenziale: ha subìto episodi gravissimi, è esasperata, si sente in pericolo. Ma non ha ancora raggiunto la consapevolezza quindi appena viene allontanata dalla sua casa, dal suo territorio, perde i suoi riferimenti ed è comprensibile che voglia poi tornare alla sua vita”. L’Associazione Thamaia, inoltre, ècomponente del Forum regionale sulla violenza maschiledel quale fanno parte anche alcune case. E dal confronto costante con gli operatori e operatrici della rete che gestiscono gli inserimenti emergonotante criticità, a partire daipagamenti da parte dei Comuni che spesso arrivano in ritardoo, addirittura, che non arrivano. La situazione di disagio vissuta dalle donne e legata spesso anche al fatto che lestrutture sono affollate e “pesano” le regole rigidissime su sicurezza e privacy, rende il collocamento presso le case rifugio l’extrema ratio, a maggior ragione presso quelle lontane dal territorio di provenienza delle donne e questo non è funzionale alle loro reali esigenze. Leggi anche –C’era una volta San Valentino. Violenza e controllo: normalità per coppie giovani Ma la vera criticità, aggiunge Agosta, è rappresentata dal fatto che “queste strutture spesso non sono collegate con i centri antiviolenzadove invece va intrapreso un serio percorso di fuoriuscita dalla spirale della violenza, diconsapevolezza e di piena informazione. Il contatto con il centro è fondamentale proprio perché permette loro di fare un’analisi della situazione che vivono, riconoscere la violenza che subiscono, nominarla e iniziare un percorso che le porti acambiare la propria vita e liberarsi della violenza”. La mancanza di un collegamento diretto con il centro antiviolenza che, ci spiega la presidente di Thamaia, è previsto tra l’altro dalle linee guida e dall’intesa Stato-Regione, crea l’effetto “andirivieni”: la donna vittima di violenza inizia percorso ma poi ci ripensa, tenta di ricostruire il rapporto, vuole perdonare ma il problema poi si ripresenta. “Laviolenza è ciclica– ammette la presidente di Thamaia Onlus – ci sono dei periodi in cui può anche arrestarsi, questo fa sperare le donne che la situazione possa cambiare ma il ciclo ricomincia espesso la violenza aumenta con escalation molto pericolose. Il fatto che le donne spesso tornano indietro è molto frequente, ricordiamoci che la violenza che subiscono è agita non da uno sconosciuto ma da un uomo con il quale hanno una relazione di intimità, il padre dei loro figli/e, il loro marito etc, ed è per questo che tentano in ogni modo di risolvere da sole”. Leggi anche –Donne e violenza, Uil: “A Catania paura di esporsi”. Si riparte dalle scuole All’accoglienza nelle case rifugio in Sicilia è legato anche iltema della “promiscuità” tra donne vittime di violenza e donne che hanno difficoltà di altra natura. “Al momento – prosegue la presidente Agosta – il tema è al centro di un tavolo tecnico aperto interno alla rete antiviolenza della Città metropolitana di Catania che Thamaia coordina. Un’accoglienza, diciamo così, non specifica con la donna vittima di violenza che si trova in case di rifugioinsieme con ragazze madri o donne con problemi di droga e prostituzione o senzatetto, rischia di rendere più complicato il cammino verso la riappropriazione della propria vita”. Ma non è solo un problema di ritorno alla vita: “Una tale situazione – aggiunge Agosta – rischia anche di comprometterne la sicurezza e questo lo abbiamo denunciato in più occasioni perché è contraria alla legge attuale che prevede che le donne vittime di violenza devono essere inserite in strutture dedicate esclusivamente a donne vittime di violenza”. Un altro errore che si commette è quello diconsiderare come emergenziale quello che in realtà è fenomeno sistemicoe strutturale e qui Agosta mette in luce un’altra grave carenza: “A differenza di quanto avviene per il personale dei centri antiviolenza dove il personale è specializzato e i controlli stringenti – sottolinea – manca nelle case rifugio un’adeguata formazione di tutti gli attori (operatori sanitari, servizi sociali, forze dell’ordine) per garantire una accoglienza adeguata che ancora manca in Sicilia (e non solo). Solo così è possibile fare una scelta a monte che sia la più giusta che permetta di programmare con criterio l’inserimento in quelle strutture”. “Abbiamo una buona legge regionale – conclude Agosta– (la n. 3/2012,ndr) ma la Regione siciliana di fatto non coordina, non controlla e soprattutto non finanzia queste fondamentali strutture”.