Cercare lavoro ovunque, persino in televisione. Non di rado trasmissioni nazionali ospitano persone in cerca di un impiego. Spesso si tratta di gente del Sud, ancora più spesso di siciliani. Per farsi un’idea della situazione, basta guardare ai numeri. Secondo l’Istat, nel 2019 i disoccupati sono il 26 per cento della popolazione dell’isola, il doppio rispetto alla media nazionale. La pandemia del 2020 non ha certo migliorato la situazione. Secondo uno studio elaborato da Legacoop e Ipsos, un imprenditore su due teme che la propria situazione economica peggiorerà nell’immediato futuro. Se dovesse chiudere, il 45 per cento non aprirebbe una nuova azienda ma cercherebbe lavoro come dipendente. Andando ad allargare le fila dei disoccupati.
Diritti (in)difesi
I numeri, da soli, non bastano a spiegare la crescita di persone che si rivolgono alla tv in cerca di un impiego. Per capire il fenomeno bisogna andare più in profondità. Lo spiega a FocuSicilia Davide Bennato, professore di Sociologia dei processi culturali e comunicativi dell’Università di Catania. Per Bennato, alla base del discorso vi è “un deterioramento della fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni”. La percezione è che i diritti “non siano più difesi, protetti, rispettati, a cominciare dal welfare”. Se l’interlocutore principale non è più lo Stato, a sostituirlo sono altri strumenti. “A partire dagli anni Ottanta, con la nascita della televisione commerciale, si è radicalizzata l’idea che le persone mediaticamente più visibili abbiano maggior potere”. Un potere che può essere utilizzato per raggiungere gli “obbiettivi di cittadinanza” non più garantiti dallo Stato.
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Un quarto d’ora di celebrità
L’applicazione sociologica del “quarto d’ora di celebrità” di Andy Warhol, scherza il professore. Un fenomeno con sfumature diverse a seconda dei protagonisti. “Possiamo unire con un’asse il disoccupato che chiede aiuto alla trasmissione della De Filippi ad Angela da Modello, che diventa un ‘personaggio’ per aver pronunciato una semplice frase”. Dal punto di vista etico le logiche sono molto diverse, precisa Bennato. “Nel primo caso, il disoccupato punta ad aver riconosciuti i propri diritti, nel secondo c’è il tentativo di capitalizzare un colpo di fortuna”. Il discorso cambia se inquadrato dal punto di vista dei media. “L’idea è quella di prendere uno sconosciuto e metterlo sotto una telecamera. Dopo un po’ diventerà qualcuno, quindi diventerà mercato”.
Dal reality al talent show
La visibilità temporanea di alcuni individui sconosciuti, dunque, diventa semplicemente un prodotto da vendere. “Particolarmente conveniente, perché costa zero e frutta parecchio”. L’idea di base è la stessa dei primi reality show, spiega Bennato, “persone ignote che diventano personaggi pubblici, ed entrano in un circuito di produzione economica”. Il tutto senza che i soggetti abbiano particolari capacità, “anzi sfruttando la loro normalità”. Un salto di qualità si è avuto con i talent show. “Qui il soggetto è ugualmente sconosciuto ma sa fare qualcosa, in genere ballare, cantare, recitare”. Il vantaggio per la televisione è quello di mettere in piedi un programma artistico “senza pagare nessun artista. Anzi, accaparrandoselo per il futuro”.
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Il privato esposto
Sarebbe un errore limitare il discorso soltanto alla tv. Per Maurizio Avola, professore di Sociologia dei processi economici e del lavoro dell’Ateneo catanese, il ragionamento non può essere distinto “da quello sul rapporto con i media in questo momento storico”. Per il professore il ricorso allo strumento televisivo avviene “per disperazione”, dopo che la ricerca del lavoro “è fallita attraverso i canali tradizionali”. Si tratta anche di una conseguenza “di una società che ci spinge ad esibire il privato”. In quest’ottica, il piccolo schermo non è nemmeno uno strumento particolarmente innovativo. Oggi le piattaforme più in voga “sono quelle dei social network, in particolare legati all’immagine, come Instagram”. Non casualmente è proprio qui che nascono alcuni fenomeni mediatici e commerciali, “come quello dei cosiddetti influencer”.
Ritorno di immagine
La costante di questo tipo di manifestazioni, che avvengano in televisione o su altre piattaforme, “è il ritorno di immagine”. Per Avola tutti gli attori che entrano in gioco perseguono – legittimamente – questo obbiettivo. Parlando della ricerca di lavoro, ad esempio, otterranno visibilità sia il programma che ha “dato voce” al soggetto, sia chi interverrà a “offrire” un’occupazione. Solo apparentemente, dunque, il beneficio maggiore appartiene alla persona che trova il posto. “Si tratta di processi inscindibili dalla natura stessa della trasmissione”, spiega il professore. Il meccanismo, ribadisce, è tutt’altro che innovativo. Probabilmente oggi incontra un’inquietudine maggiore, legata alla difficoltà di trovare un lavoro.