Quasi il 90 per cento delle dighe siciliane sorge in zona sismica a rischio medio-alto. Solo il 24 per cento, tuttavia, “è stato progettato tenendo conto delle azioni sismiche con il metodo pseudo-statico”. In altre parole, milioni di litri d’acqua sono accumulati in strutture che, in caso di terremoto, potrebbero cedere causando disastri. È quanto si legge in una relazione illustrata a dicembre 2022 dall’ingegnere Calogero Morreale, responsabile dell’Ufficio tecnico per le dighe del Provveditorato interregionale per la Sicilia e la Calabria del ministero delle Infrastrutture. Nel dettaglio, il due per cento degli invasi siciliani risulta costruito in zone a rischio sismico alto, mentre l’85 per cento sorge in zone a rischio medio. Appena il 13 per cento si trova in zone a rischio sismico basso o molto basso. Più confortanti i dati nazionali. Secondo lo studio, infatti, è più alto il numero di dighe costruite in zona ad alto rischio (sette per cento), ma scende decisamente quello delle dighe in zona a rischio medio (32 per cento) mentre la stragrande maggioranza degli invasi sorge in zone a rischio basso o molto basso (61 per cento).
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Breve storia del rischio sismico
Per inquadrare la questione è necessario qualche accenno sulla legislazione in materia di sicurezza sismica. Benché la storia italiana sia costellata da forti terremoti (anche durante il XX secolo) per anni la normativa è rimasta piuttosto vaga. Le cose cambiano con il terremoto dell’Irpinia del 1980, che provoca quasi tremila morti. Nel 1981, infatti, vengono introdotte tre categorie di rischio sismico, stabilite dal Consiglio nazionale delle ricerche, con specifiche norme per le costruzioni, dighe comprese. Le categorie di rischio, tuttavia, coprono appena il 45 per cento del territorio nazionale. Il resto viene considerato “non classificato”, ovvero non a rischio, senza particolari obblighi per i costruttori. Nel 2003, dopo il devastante terremoto in Puglia e Molise dell’anno precedente, il territorio italiano viene riclassificato con il sistema delle “quattro zone” (rischio alto, medio, basso e molto basso). In altre parole spariscono le zone “non classificate” e l’intero territorio italiano viene considerato a rischio, sebbene con diversa intensità. In seguito anche questo criterio è stato rivisto, ma è ancora utilizzato a livello informale per individuare le aree sismiche.
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Dighe vecchie di decenni
Per rendersi conto della situazione in Sicilia basta scorrere l’elenco pubblicato dalla Direzione generale per le dighe e le infrastrutture idriche. Soltanto 15 invasi su 46 sono stati costruiti dopo il 1981, ovvero con le regole antisismiche previste dalla normativa delle “quattro zone”. Si tratta degli invasi San Giovanni e Santa Rosalia (1981), Castello e Olivo (1982), Garcia e Paceco (1984), Ponte Diddino (1986), Furore (1987), Monte Cavallaro e Ponte Barca (1988), Lentini (1991), Rosamarina e Sciaguana (1992), Disueri (1997) e Gibbesi (2000). Tutti gli altri sono stati costruiti negli anni del far-west edilizio, e non di rado hanno più di 80 anni. La relazione di Morreale cita il caso della diga di Piana degli Albanesi, in provincia di Palermo, costruita nel 1923, ben cento anni fa. Sempre nel palermitano, la diga di Piano del Leone risale al 1933, quella di Gammauta al 1937, quella di Prizzi al 1942. Eppure la Sicilia presenta dati migliori del resto del Paese. In Italia, infatti, “l’età media delle dighe è di quasi 70 anni”, mentre nell’Isola “è poco più di 50 anni”.
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Gli interventi (pochi) in corso
Malgrado ciò, precisa il responsabile dell’Ufficio tecnico per le dighe, in quasi tutti gli impianti siciliani “sono necessari interventi più o meno significativi di adeguamento o miglioramento sismico delle opere”, anche di quelle accessorie. A prevederli è la Legge 139/2004, che riguarda proprio le “Rivalutazioni sulla sicurezza sismica delle dighe”. La norma infatti è stata emanata dopo l’introduzione del sistema a “quattro zone”, e prevede la creazione di un elenco di invasi “da sottoporre a verifica sismica e idraulica in conseguenza della variata classificazione sismica dei siti”. Dei 30 interventi in corso nell’Isola a dicembre 2022 – dal costo stimato di 154 milioni di euro, stanziati anche attraverso il Piano nazionale di ripresa e resilienza – soltanto sette “riguardano studi di rivalutazioni sismiche”. Uno di essi è stato avviato per la diga di Pietrarossa, in provincia di Enna, in costruzione dal lontano 1989. Tra le azioni previste nel Piano di gestione dell’invaso, conclude la relazione di Morreale, oltre al “completamento del corpo della diga” e degli “strumenti di monitoraggio e controllo”, figura proprio la “rivalutazione sismica delle opere esistenti”.