Il virus al confine
Ci sarà modo, nei mesi e negli anni a venire, di valutare tutte le conseguenze economiche di questa epidemia, novità assoluta per il mondo contemporaneo. Per l’Italia il presidente del Consiglio dei ministri ha annunciato la sospensione di tutte le attività non essenziali. Si tratta di ununicumnella storia italiana poiché, come egli stesso ha affermato, l’Italia sta attraversando la più grande crisi dal secondo dopoguerra, ossia da settantacinque anni a questa parte. È ragionevole supporre che decisioni di questa natura non saranno un’esclusiva del nostro Paese: molte altre realtà in giro per il mondo, e certamente quelle che si lasceranno cogliere impreparate, troveranno indispensabile contenere i contagi riducendo drasticamente le occasioni di contatto tra individui e quindi, tra queste, la condivisione dei luoghi di lavoro. L’Italia, per motivi che capiremo, dopo la Cina è stata colpita per prima e ben più violentemente. Di conseguenza una certa dose di sorpresa e impreparazione è da considerarsi fisiologica. Non così per gli altri Paesi che, sulla scorta dell’esempio italiano, hanno modo già adesso di prepararsi al domani grazie all’esperienza e agli errori che avremo accumulato noi. Nei mesi e negli anni a venire studieremo i dettagli degli
avvenimenti della pandemia e riconsidereremo la robustezza dei sistemi
economici contemporanei e della filosofia che li regge. Conteremo, in miliardi, anche i danni subiti dai diversi
settori in termini di prodotto e di occupazione, per tacere dei costi sociali e
degli incalcolabili costi umani. Tuttavia una prima considerazione marginale,
tutta interna al nostro Paese, può già essere abbozzata. La vicenda in cui siamo immersi ci ha impartito infatti una
lezione: avere un sistema sanitario nazionale a carattere universalistico è
questione –letteralmente- di vita o di morte. La cosa sarà drammaticamente
evidente se, Dio non voglia, l’epidemia dovesse abbattersi, e con la stessa
violenza, su Paesi a sanità prevalentemente privata. All’interno di questo
vantaggio strutturale, di cui l’Italia gode nel fronteggiare l’emergenza, stanno
emergendo però due caratteristiche che lo infiacchiscono. La prima è evidente e
dipende dalla limitatezza delle risorse dedicate alla sanità. Se l’Italia ne
uscirà con meno vittime di quanto avrebbe rischiato, lo dovrà a quel pezzo di
welfare costituito dalla sanità pubblica e finanziata dall’imposizione fiscale.
Sarà bene ricordarcene in futuro: lo stato sociale dispiega tutta la propria
forza, e azzera le differenze
socio-economiche, nella misura delle risorse di cui lo abbiamo dotato. Ci si
prende cura di tutti finché si può, di ricchi e di poveri, di cittadini
fiscalmente integerrimi come di evasori totali. La seconda caratteristica della nostra sanità, che ne indebolisce
la struttura universalistica, è la regionalizzazione delle competenze in
materia sanitaria. L’idea, nobile, è quella per cui un territorio conosce
meglio del governo centrale le proprie esigenze, anche quelle di carattere
sanitario. Il sottinteso, meno nobile, potrebbe essere: “sono più ricco di te
perché produco e quindi guadagno di più. Pago più tasse di te, e quindi ne
tengo la gran parte per me e ci organizzo la mia sanità”. In tal senso, la
regionalizzazione dipenderebbe dall’appetito benestante del “prima io e i miei
vicini”. È chiaro che la misura della regionalizzazione delle competenze, e
quindi delle risorse, può variare di molto: una cosa è godere di un certo grado
di autonomia, che permetta di adattare le caratteristiche generali del sistema
alle esigenze specifiche di un territorio, altra cosa è impedire ad un cittadino
di Modica di andare a Milano per farsi curare. Della misura di queste
competenze s’era parlato alcuni mesi addietro con grande insistenza, ma scarsa
eco sui mezzi di informazione, in un dibattito intitolato alregionalismo differenziato. Per
semplificare: alcune regioni del Nord Italia, Lombardia in testa, reclamavano in
materia sanitaria la più grande autonomia possibile. Come corollario, le
risorse finanziarie a loro disposizione sarebbero state più grandi di quelle
attuali, mentre si sarebbero ridotte quelle a disposizione di altre regioni,
prime fra tutte quelle meridionali. In base a questo sistema un cittadino di
Modica non avrebbe più potuto, letteralmente, scegliere di farsi curare a
Milano, Padova o Bologna. Non gli sarebbe restato quindi altro da fare che
scegliere tra le strutture sanitarie della Regione di residenza. Bene, la prima cosa che questa emergenza ci insegna è che l’idea
di una grande differenziazione tra territori del sevizio sanitario italiano può
essere serenamente accantonata, con buona pace dell’avidità della politica di chi
l’ha perseguita. Se in condizioni normali una differenziazione spinta conduce
“soltanto” a gravi diseguaglianze tra cittadini dello stesso Stato, in condizioni
straordinarie come questa può condurre a catastrofi. Per averne prova basta considerare
la contraddittorietà delle decisioni assunte in questi giorni dalle diverse Regioni
i cui Governatori, dovendo politicamente rispondere al proprio elettorato
solamente, tendevano a prendere decisioni guardando solo a questo, come se i
virus si arrestassero disciplinatamente al confine con la Regione limitrofa,
infettassero per circoscrizione elettorale o rinunciassero per decreto a salire
sui treni. Questa contraddittorietà ha reso ovviamente molto difficile il
coordinamento centrale degli interventi. Anche la raccolta dei dati (vitale,
nella situazione che stiamo affrontando) ha subito la stessa contraddittorietà,
se è vero che ogni Regione ha stabilito in totale autonomia i criteri con i
quali decidere chi sottoporre al tampone per positività al virus e chi no. La
disomogeneità che ne è conseguita ha costituito una variabile in più nel puzzle
che gli epidemiologi stanno dovendo affrontare. In tempo di prosperità si tende più che in tempo di ristrettezze a far leva soltanto su di sé, mentre il bisogno di sostenersi a vicenda emerge prepotente nelle difficoltà. Il punto è che quando le difficoltà si palesano, spesso non lasciano il tempo di organizzare le infrastrutture della solidarietà, indispensabili nei tempi grami, ed è dunque proprio nei tempi prosperi che occorre accantonare risorse e progettare rimedi per quelli cupi. Concedendo tutta l’autonomia possibile, che possa servire alle Regioni per conformare il servizio sanitario alle diverse esigenze di territori differenti, la struttura decisionale e di rilevazione deve tornare ad essere rigidamente centralizzata: le nostre vite sono troppo intimamente interconnesse perché i confini regionali (come quelli nazionali, ma occorrerà parlarne una prossima volta) possano acquisire significato per viaggiatori anarchici come sono i virus.