La pensione della nonna a Palermo la paga l’operaio di Monza. È la realtà di un’Italia frammentata dove il sistema pensionistico, così come il resto del welfare, con assistenza e sanità, soffre di profondi squilibri territoriali. Ci sono regioni dove si produce di più e i contributi fiscali e previdenziali alimentano un sistema che poi redistribuisce ad altre regioni dove la capacità di contribuire è minore. È la fotografia scattata dal settimo Rapporto sulla “Regionalizzazione del bilancio previdenziale italiano” curato dal Centro studi e ricerche di Itinerari previdenziali. Dal report, che analizza dati in sequenza dal 1980 al 2021, emerge come alcune regioni partecipino al bilancio nazionale con un tasso di copertura del proprio fabbisogno territoriale che oscilla tra il 50 e il 60 per cento, mentre altre superano addirittura il cento per cento. La Sicilia, ad esempio, “copre” circa il 53 per cento, la Lombardia oltre il 102 per cento. Basterebbe – questa la tesi ricorrente nei sette Rapporti pubblicati finora – garantire una copertura del 75 per cento da parte di tutti perché il sistema nazionale possa rimettersi in equilibrio. Negli ultimi vent’anni, però, la storia è stata tutt’altra.

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Regioni diverse, ma leggi identiche per l’intero Paese
La “regionalizzazione” delle entrate contributive e fiscali, della spesa pubblica per il welfare e i tassi di copertura dal 1980 al 2021 sono dati di fatto. Si basano su una scelta politica storicamente ripetuta. Quella di adottare, cioè, una normativa unica per tutto il Paese, “come se fosse un Paese omogeneo, con le stesse problematiche e opportunità” per tutte le regioni, sottolineano dal Centro studi. “Ogni volta che si è riformato il sistema delle pensioni per garantirne la sostenibilità di medio e lungo termine, si è proceduto con una normativa identica per l’intero Paese. Lo stesso è accaduto per le (mancate) politiche economiche e di sviluppo e per quelle sul mercato del lavoro“. Non si è tenuto cioè conto “dell’insufficiente livello di sviluppo di alcune aree del Paese, in particolare delle otto regioni meridionali”. Per rimediare, lo Stato centrale ha operato delle compensazioni con politiche assistenziali. Secondo i dati di lungo periodo, queste però “hanno però avuto l’effetto opposto di rallentarne ulteriormente la crescita”, scrivono gli analisti di Itinerari previdenziali. Come gli sgravi contributivi totali in vigore dagli anni Settanta e che dopo poco più di 20 anni sono stati considerati aiuti di Stato dalla Commissione europea, per essere progressivamente eliminati dal 1995.

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Gli sgravi contributivi hanno aumentato il divario
Proprio sugli sgravi contributivi, nel lungo periodo si assiste a un doppio fenomeno negativo. Da una parte, infatti, non hanno prodotto alcun vantaggio competitivo e l’arretratezza di grandi aree del Meridione, rispetto al Centro e al Nord, lo dimostra ampiamente. Dall’altra, hanno persino “ritardato lo sviluppo delle regioni del Sud. Esattamente come l’erogazione di prestazioni di invalidità (concessa in alcune aree del Paese solo per motivi economici) come pure altri sussidi, specie in agricoltura. Tutto ciò ha prodotto una divaricazione tra Nord e Sud, nuocendo soprattutto alle regioni meridionali
in termini di sviluppo e lavoro, ma ha anche generato una commistione tra assistenza e previdenza che penalizza il nostro Paese nei confronti dei partner europei“, precisa il Centro studi. Ancora: “Gli sgravi contributivi totali hanno solo ‘drogato‘ l’economia delle otto regioni meridionali. Si è creata occupazione di sussistenza che si è dissolta quando gli sgravi sono stati vietati”. Riproporre decontribuzioni al Sud sarebbe quindi un “errore del passato”. Errore che ogni tanto però riaffiora e si ripete in altre forme. Presunti vantaggi fiscali e continue riforme potrebbero essere evitate . Ma andrebbero attuate delle politiche più accorte per migliorare gli assetti pensionistici e occupazionali nelle aree più deboli.

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Regioni siano autosufficienti al 75 per cento
La tesi contenuta nei sette Rapporti sviluppati finora dal Centro studi è che il sistema pensionistico tornerebbe in totale equilibrio e la spesa assistenziale si ridurrebbe vistosamente, se si intervenisse su infrastrutture strategiche (trasporti, energia e insediamenti produttivi) e costo del lavoro. Bisognerebbe portare tutte le Regioni, nell’arco di otto o dieci anni, al 75 per cento di autosufficienza. Ovvero, i contributi e imposte coprono almeno il 75 per cento delle prestazioni in pagamento. Poi c’è la sanità. Un accentramento temporaneo della gestione (quindi nelle mani del governo nazionale e non più delle Regioni, come adesso) renderebbe più sostenibile la spesa sanitaria. “L’abolizione delle pensioni di anzianità – è tra gli esempi del Rapporto – ha leggermente migliorato i conti delle Regioni del Nord che comunque erano già in salute mentre non ha praticamente avuto effetti in gran parte delle regioni del Centro-Sud che arrivano alla pensione quasi tutti con il requisito della vecchiaia, creando quindi più problemi (esodati e precoci) che risparmi”. In vent’anni la situazione non è migliorata, mentre si sono moltiplicati i problemi. Meno fondi Ue alle regioni meridionali, dirottati verso Paesi emergenti. Ridotta capacità delle regioni settentrionali e in particolare della Lombardia di finanziare i trasferimenti al Sud. Risultato: enorme aumento del debito pubblico trainato dalla spesa assistenziale. Ci vorrebbe, concludono gli esperti, “l’unità nazionale della politica” per consentire al Paese di svilupparsi.