Oltre il 70 per cento del pesce venduto in Sicilia proviene da altre parti d’Italia e del mondo. E ciò malgrado l’Isola – secondo gli ultimi dati Istat disponibili, aggiornati al 2019 – sia la prima regione italiana per pescato, con quasi 33 mila tonnellate all’anno, quasi il 19 per cento del dato nazionale, e un ricavato che supera i 220 milioni di euro, il 25 per cento del totale. Il comparto ittico siciliano vale oltre un miliardo di euro, ma la fetta maggiore è assorbita dalle imprese della trasformazione e della commercializzazione, che lavorano soprattutto prodotto “estero”. “Il pesce locale arriva al massimo al 20-30 per cento, perché la domanda è di gran lunga superiore all’offerta. Il dato italiano è persino peggiore, con appena il 16-18 per cento di prodotto locale”, dice a FocuSicilia Stefano Fricano, ricercatore presso il Dipartimento di Scienze economiche, aziendali e statistiche dell’Università di Palermo. “Il mercato è fortemente sbilanciato, e i pescatori locali sono sottoposti a una concorrenza estera fortissima”, aggiunge il ricercatore.
Leggi anche – Unict, studio sull’inquinamento: “Microplastiche nei pesci di profondità”
I numeri della pesca nell’Isola
Secondo l’ultimo rapporto annuale su Pesca e acquacoltura, realizzato dall’Osservatorio sulla pesca del Mediterraneo con il sostegno della Regione, di cui Fricano è stato uno dei redattori, la filiera ittica siciliana ha una struttura “a clessidra”. Le imprese della pesca sono circa 2.500, spesso realtà individuali o a conduzione familiare, quelle della trasformazione poco più di cento, quelle della commercializzazione circa 2.500. Per quanto riguarda il pescato, la fetta maggiore viene dal metodo dello “strascico”, con 15 mila tonnellate di resa e ricavi per 134 milioni di euro. Seguono la piccola pesca (cinquemila tonnellate, 37 milioni di euro), le reti di circuizione (seimila tonnellate, 22 milioni) i palangari (3.400 tonnellate, 19 milioni) e altri sistemi (tremila tonnellate, nove milioni). Numeri importanti, che non dipendono soltanto dalla natura insulare della Sicilia. Con più chilometri di costa – circa 1.850, contro i 1.500 della Trinacria – la Sardegna conta “soltanto” ottomila tonnellate di pescato all’anno, con un ricavo stimato di 63 milioni di euro.

Leggi anche – Pesce, l’85% dei siciliani ama il “fresco” ma la metà non sa da dove viene
L’importanza dello “strascico”
Il “peso” delle marinerie riflette la modalità di pesca attuata. “Le maggiori sono Mazara del Vallo, Porticello e Sciacca, dove si pratica prevalentemente lo strascico, mentre a Porto Palo di Capo Passero, Lampedusa e Marsala si utilizzano soprattutto i palangari fissi”, spiega Fricano. Malgrado questa eterogeneità, il primato della Sicilia a livello nazionale non è in discussione. Alle sue spalle si posizionano il Veneto, con 23 mila tonnellate di pescato e ricavi per 86 milioni di euro, le Marche, con 21 mila tonnellate e ricavi per 81 milioni, e la Puglia, con 21 mila tonnellate e ricavi per 111 milioni. Agli ultimi posti in classifica, tra le regioni che si affacciano sul mare, la Liguria con quattromila tonnellate di pescato e ricavi per 22 milioni, il Friuli Venezia Giulia con duemila tonnellate e ricavi per 16 milioni e il Molise, con 1.700 tonnellate e ricavi per 13 milioni. Nel complesso, il pescato annuo in Italia sfiora le 174 mila tonnellate, che però come detto non bastano a soddisfare la richiesta, tanto da costringere le aziende ad acquistare e lavorare anche prodotto estero.

Leggi anche – Pesca, bando regionale da 500 mila euro per promozione dei prodotti ittici
I padroni della trasformazione
Tornando alla Sicilia la trasformazione, come detto, rappresenta il “collo” della clessidra. Nell’Isola si contano appena 106 imprese, con un fatturato complessivo di 430 milioni di euro. A dominare il mercato, osserva Fricano, sono poche realtà. “Dai dati si vede come le principali cinque aziende, da sole, riescono a raggiungere più del 50 per cento dei ricavi totali”, spiega l’esperto. Considerando le prime dieci aziende “si raggiungono più dei due terzi del fatturato totale”, indice di una situazione “abbastanza disomogenea”, anche a livello territoriale. La maggior parte delle imprese, si legge infatti nel report del Distretto Pesca, nascono “dove storicamente vi è una lunga tradizione di attività artigianali legate alla lavorazione dei piccoli pelagici, sardine e acciughe, e dei grandi pelagici, tonni e pesce spada”, in particolare nelle province di Trapani (Mazara del Vallo e Marsala), Palermo (Aspra e Porticello) e Agrigento (Sciacca). Le altre province risultano meno popolate, anche in presenza di grandi marinerie, come a Siracusa con Porto Palo di Capo Passero.

Leggi anche – Unict, il villaggio scientifico che unisce le due sponde del Mediterraneo
Commercializzazione disomogenea
Per quanto riguarda la commercializzazione, infine, il giro d’affari stimato dal dottor Fricano “è di circa tre volte quello realizzato dalle marinerie, dunque tra i 600 e i 700 milioni di euro l’anno”. In questo caso a ospitare il maggior numero di aziende sono le province di Palermo e Catania, che raccolgono circa 500 imprese ciascuna, seguire dalle provincie di Trapani (400), Messina e Agrigento (300). In termini di fatturato, tuttavia, è la provincia di Palermo a fare la parte del leone, “inglobando quasi il 50 per cento del settore siciliano”. Anche in questo caso, segnala il Distretto della pesca, “si vede un settore moderatamente concentrato con le grandi insegne della grande distribuzione che chiaramente, in poche, si dividono principalmente il mercato della grande distribuzione organizzata”. Sul fronte opposto, conclude il report, vi sono “tante piccole imprese a contendersi il mercato locale residuo dei prodotti ittici freschi e trasformati”.