I dati li leggiamo tutti da giorni: ci sono interi settori destinati a morire (sì, inutile girarci attorno), altri che brancolano nel buio di aiuti, bonus, prestiti e moratorie che stentano ad arrivare. E per quanto, tra l’altro? Poi c’è lo Svimez che mette tutto assieme e racconta di un Paese che perde 47 miliardi. Finora. Poco più di due in Sicilia. Bruscolini, si dirà, rispetto alle perdite delle zone del Nord, più colpite dal virus. Eppure il rischio fallimento in Sicilia è quattro volte superiore. Come a dire, l’impatto economico di gran lunga più importante dell’epidemia sarà al Sud. Fondamentale perciò intervenire sul mercato interno, sulla tenuta dell’occupazione, sul potere d’acquisto delle famiglie. E su nuove e vecchie povertà, anche.
Sì, perché se c’è una cosa che in queste settimane non tutti i report hanno sottolineato è che il coronavirus crea diseguaglianza. Sia diretta che indiretta. Sul piano sanitario abbiamo appreso dalle puntuali conferenze della Protezione civile che ci sono alcuni gruppi demografici più a rischio di altri. Sul piano economico l’epidemia rende impossibile la continuazione di alcune attività mentre risparmia altre (prendete l’e-commerce, ad esempio). Senza contare che fattori come la casa, la disponibilità economica, il genere, l’accesso alla tecnologia, la condizione lavorativa cambiano il modo in cui le persone stanno vivendo il dramma sanitario. Capiamoci, sono tutti fattori che pesano maggiormente in Sicilia, dove la disponibilità economica langue, dove la maggior parte delle donne non lavora e dove chi lavora spesso è a nero o con contratto precario. Per non parlare dell’esigenza abitativa o della possibilità per le famiglie di avere un computer o un tablet, o semplicemente una connessione internet (vedasi dati Istat).
Non è un caso, perciò, se gli economisti dell’Associazione per lo Sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno da giorni lanciano appelli tout court al governo nazionale (al momento caduti nel vuoto): fate attenzione al Sud. Si può discutere di reddito di emergenza e dei vari sussidi, dei bonus per gli autonomi o dei prestiti alle pmi ma rendiamoci conto che per far fronte alla crisi post-Covid non basta solo metterci una pezza. Accanto all’emergenza sanitaria (e a una possibile emergenza di ritorno, se la riapertura non dovesse funzionare bene) c’è una crisi senza precedenti che molti esperti paragonano perfino al dopoguerra: quando la produzione ed il reddito di milioni di persone diminuiscono drasticamente sparisce una fetta sia dell’offerta che della domanda aggregata. Se caliamo quest’affermazione al contesto regionale, il rischio maggiore si potrebbe racchiudere in due parole: rabbia sociale. Ne abbiamo visto un assaggio tra chi incitava a prendere d’assalto i supermercati lungo viale della Regione siciliana, a Palermo, ad esempio.
Basta questo per capire che il Mezzogiorno deve ripartire. E anche prima di Milano (date un’occhiata alle curve epidemiologiche). Non solo. Questa sarebbe una buona occasione per fare meglio. Accanto al buonsenso e alla laboriosità che molti siciliani hanno (checché se ne dica) servono anche misure lungimiranti, politiche nazionali e regionali che riescano ad andare oltre. La finanziaria su cui in questi giorni la Regione siciliana discute, al di là degli aiuti circostanziali (e sempre che arrivi il placet da Roma e Bruxelles per l’utilizzo di fondi extraregionali) farebbe bene a creare le condizioni perché le imprese possano riaprire al più presto. Non c’è sussidio monetario (da qualsiasi parte esso provenga) che compensi per la chiusura dell’attività, a meno che non si intenda farlo diventare un sussidio permanente. Una strada che non sarà battuta né dallo Stato né tantomeno da una Regione già malconcia.