Quello che è successo in Sicilia, a Palermo, lo scorso 7 luglio, è un gravissimo e virulento atto di violenza di genere ai danni di una ragazza di soli diciannove anni, da parte di sette ragazzi coetanei. Se guardiamo, SOTTOSOPRA, ciò che è stato compiuto da questi sette giovanissimi uomini, accusati di uno dei reati più gravi contro la persona ossia quello della violenza sessuale di gruppo, emerge un atto inaudito, uno spaccato atroce, puramente drammatico e vile.
Stupro di gruppo, i messaggi nelle chat
Questa è una faccenda complicata, che si fonda sulle dinamiche di patriarcato (duro a morire), maschilismo, sulle dinamiche di potere, di controllo, fino ad arrivare sul terreno della dissonanza cognitiva. Sono assolutamente agghiaccianti i messaggi scambiati nelle chat dagli indagati dopo lo stupro. Ma la comprensione di questo ignobile fatto deve partire dall’analisi delle parole che vengono utilizzate dai ragazzi: “Falla bere che poi ci pensiamo noi”, questa è una delle frasi pronunciate al barman in quella sera degli orrori, poco prima che i giovani accusati stuprassero a turno la ragazza.
Violata nella sua dignità di donna
Questa storia non è una semplice storia di sesso o di pornografia, e neanche di “amore” e gelosia sfociati in femminicidio. Questa bruttissima storia è pura violenza di genere ed ha una vittima (una ragazza) e dei carnefici (gli uomini che l’hanno stuprata) senza tanti e inutili giri di parole. La diciannovenne è stata da questi uomini stuprata, violata nella sua dignità di donna, di essere umano, cancellata, privata della sua identità e umiliata da un branco (non di cani), ma di uomini in carne ed ossa, con nomi e cognomi. Sette uomini che, nella logica deviata di quelle conversazioni (di quelle chat), erano diventati “cento”; infatti, questi ragazzi nella loro devianza criminale e spaventosa hanno eliminato anche l’identità della ragazza chiamandola “gatta”, privandola della sua dignità di donna.
Un oggetto da usare, consumare e gettare
L’idea del possesso, come di un oggetto, il delirio di onnipotenza, il pensare di poter disporre della vita di una donna a proprio piacimento, il sentirsi invincibili perché in tanti, perché in branco. Una ragazza usata per appagare gli istinti criminali e la sete di potere di questi uomini. Ci troviamo in presenza di un’evidente dissonanza cognitiva dei soggetti che compongono il branco: una donna trasformata in oggetto da usare, consumare e gettare. Qui subentra la psicologia criminale, che vuole cancellarle qualsiasi identità, per spogliarla anche della sua umanità.
Stupro di gruppo e percezione di se stessi
Questo entra nelle dinamiche legate agli stupri di gruppo: una dissonanza cognitiva che è un aspetto da analizzare nella psicologia degli autori dello stupro. Uno squilibrio tra i loro comportamenti immorali e la percezione che hanno di sé stessi, di questo efferato crimine, il pensarsi “persone” degne ed integre. Aver privato della sua umanità la ragazza violentata aggrava la posizione del branco di stupratori, perché rende le loro azioni (prima, durante e dopo lo stupro) non una “semplice” violenza contro le donne, ma una vera e propria violenza di genere, voluta, premeditata e praticata.
La forza del branco nello stupro di gruppo
Altro elemento che risalta dai fatti emersi è che lo stupro non ha niente a che vedere con il sesso, la pornografia (come è evidente che i femminicidi non hanno niente a che fare con l’amore o la gelosia). Qui si va oltre l’atto sessuale, poiché siamo di fronte all’affermazione violenta di potere degli uomini sulle donne, un empowerment distorsivo degli aggressori: umiliare e degradare la vittima per affermare il senso di potere su dei essa (dominandola) e di controllo sulla stessa (violentandola). Il gruppo aggrava la dinamica, intensifica e rafforza la violenza, facendo da scudo alle singole colpe degli attori dello stupro. Per il gruppo lo stupro è servito a sigillare un patto di lealtà, un senso di appartenenza, esaltando il loro senso di virilità, di forza, di potenza. Anche la scelta macabra di immortalare la violenza in un video risalta una dissociazione e un disimpegno emotivo dei singoli appartenenti al gruppo, che dopo aver violentato la diciannovenne l’abbandonano per strada e vanno a fare colazione, come se nulla fosse accaduto.
Colpevolizzare la vittima
Questi ragazzi di età compresa tra i diciotto ed i ventidue anni, va detto a voce alta, hanno violentato una ragazza di diciannove anni e hanno ripreso tutto con un telefonino.
I sette sono infatti indagati per violenza sessuale di gruppo. I video a disposizione degli inquirenti sono l’elemento che ha fatto scaturire le ordinanze di custodia cautelare. Questo è uno tra i reati più gravi che si possano commettere contro la persona (secondo l’art. 609 octies del C.p. che prevede la reclusione da otto a quattordici anni per violenza sessuale di gruppo, con l’aggravante, nel caso specifico, di minorata difesa della vittima).
Dal 2019, con la legge n. 69, è entrato in vigore un codice rosso e si sono inasprite le pene previste per i reati commessi a danno delle donne, anche se le statistiche e la cronaca nera dimostrano che l’ondata di femminicidi sia in drammatico aumento e che la nuova normativa sia servita a poco. Le chat e le conversazioni tra i membri del gruppo, dopo aver appreso la notizia della denuncia, mostrano come gli stupratori, invece di rendersi conto di ciò che avevano commesso, hanno piuttosto scelto di inveire contro la vittima, intimidendola, provando a denigrarla, perpetrandole ancora violenza, non più fisica, ma psicologica, emotiva e morale.
Il ruolo dell’uomo
Quanto accaduto a Palermo non fa altro che rafforzare il convincimento che per contrastare la violenza contro le donne, in qualsiasi forma essa avvenga, non sia più sufficiente inasprire le pene, ma è necessario introdurre nelle scuole l’educazione al rispetto delle emozioni, al rispetto degli altri. C’è bisogno di una rivoluzione culturale che sradichi il patriarcato e il senso di possesso che gli uomini hanno sulle donne. Bisogna ripartire dal basso, dalle famiglie e c’è bisogno che gli uomini si prendano la responsabilità morale di questi fatti e provino a contrastare questo fenomeno in prima persona.
La violenza contro le donne è un problema di noi uomini tutti che guarda all’asimmetria ancora presente nelle relazioni fra i sessi, fra uomini e donne. Non autoassolviamoci perché non abbiamo commesso i fatti in questione. Siamo tutti colpevoli.