Trentasei anni, catanese, imprenditore e docente. Simone Tornabene e l’agenzia Imille di cui è partner, hanno avuto gli onori della cronaca (e delle polemiche), per avere disegnato il nuovo logo dell’Università di Catania. L’ateneo dove si è laureato. Docente allo Iulm di Milano, Tornabene è da sempre impegnato nel mondo della comunicazione digitale e dell’editoria. Negli anni ha imparato anche a ridisegnare se stesso e le proprie competenze trasformando i fallimenti in punti di ripartenza. Dal 2017, con l’agenzia Imille, compete sul mercato, internazionale, della comunicazione e del design.
È stato un allievo della Scuola Superiore di Catania. Anziché proseguire la ricerca in ambito universitario, ha deciso di spendersi subito professionalmente. Come mai?
“Avevo pianificato come molti dei miei colleghi di restare in ambito universitario. Ma durante l’ultimo anno di Università mi innamorai di una ragazza che viveva a Milano e decisi di mollare tutti i piani fatti e andare a vivere con lei. Dovendo mantenermi, cercai un lavoro. Nel mondo accademico manco a parlarne, mandai qualche curriculum e ottenni solo silenzi. Iniziai mio malgrado a fare della mia passione, al tempo legata ai blog, un lavoro. La mia relazione non andò lontano, mentre i miei tentativi iniziali da freelance portarono frutto. Così dopo aver fondato diverse agenzie (Viralbeat, Endivia, Digital Dictionary, WHY), aver provato il brivido di qualche start-up (Yoc.to, My Next Guest, Seating, Cosmico) e aver lavorato come manager in un grande gruppo (Mondadori) ho comprato nel 2017 delle quote de Imille. Da allora è iniziato un viaggio bellissimo che dura tutt’ora e che mi fa pensare con un sorriso al “fallimento” da cui tutto è partito”.
Il periodo di studi universitario riesce ad instillare nei giovani la voglia di fare impresa?
“Nel caso specifico della Scuola Superiore di Catania (SSC), direi proprio di sì. Molte delle attività erano auto-gestite dalla comunità e il senso primo dell’imprenditorialità è appunto “intraprendere” un’attività, con il supporto di un’organizzazione. Da questo punto di vista la SSC è un laboratorio ideale. In realtà dentro l’Ateneo ci sono state e ci sono diverse esperienze che funzionano allo stesso modo e hanno lo stesso effetto. Strada da fare ce n’è sempre, ma nella mia esperienza, anche in altri atenei e organizzazioni (ho insegnato in master delle Università di Parma, Torino, Milano, H-Farm) posso dire che a Catania non abbiamo nulla di meno”.
Qualche esperienza di start up lei l’ha fatta. Ce ne vuole parlare?
“Ho sempre “avviato” i business in cui ho lavorato, per cui ho sempre fatto start-up. A parte le agenzie, ho fatto parte come advisor o investitore di esperienze legate a home restaurant, digital advertising , Airbnb services. Da ciascun fallimento ho imparato cose che mi sono tornate utilissime successivamente. Spesso ho letteralmente guadagnato rivendendo la conoscenza acquisita grazie a quei fallimenti che mi sembravano grandi allora, ma si sono poi rivelati “piccoli” rispetto ai guadagni successivi che hanno abilitato”.
È difficile fare start up in Sicilia?
“Secondo me è difficile in Italia in generale, in Sicilia in particolare. Non tanto per le risorse ma per l’ecosistema che chiaramente ha dei limiti, non tanto nello start-up ma nella fase di scale-up. Il limite principale secondo me è legato all’approccio culturale al lavoro, che è ancora troppo distante dalla logica “tipica” del business oggi. In Sicilia continuiamo a pagare una scarsa capacità di proiettarci nel futuro a lungo termine e una scarsa propensione a considerare la velocità come un elemento fondamentale di qualsiasi cosa abbia a che fare con il lavoro. Quando poi si vedono le eccezioni a questo, non mi stupisce che dal territorio partano realtà che occupano il loro spazio non solo in Italia ma nel mondo: qui abbiamo cervelli ottimi”.
Quando ha deciso di prender parte ad iMille? E con quali obiettivi di posizionamento, tenendo presente che il contesto delle agenzie di comunicazione è molto concorrenziale?
“Imille è nata nel 2004 ad opera di tre soci originari. Io mi sono unito a loro nel 2017, perché cercavo una piattaforma più grande per esprimere più velocemente il valore che avevo costruito. Da allora abbiamo dato vita a una nuova realtà “atipica” per il mercato italiano, per due motivi: non esistono agenzie indipendenti della nostra taglia con più sedi all’estero e Imille compete simultaneamente sul mercato della comunicazione e del design, mentre solitamente (con poche eccezioni) le agenzie si specializzano in uno dei due mondi”.
Del team quante persone fanno parte? E dove operate? Anche all’estero?
“Abbiamo 85 persone di 12 nazionalità diverse, sparse fra Milano, Roma, Trento, Santiago de Chile e Madrid. Abbiamo anche una piccola presenza esplorativa a Rio de Janeiro. All’estero abbiamo lavorato con clienti e progetti in Colombia, Perù, Argentina, Brasile, Cile, Russia, Francia, USA, Cina, Svizzera, Svezia”.
Suo malgrado, si è ritrovato agli onori della cronaca per il rebranding dell’Università di Catania. Si aspettava così tanto polverone, quando anche il Rettore aveva già precisato che una cosa è il sigillo del 1934, altra cosa è il brand per una comunicazione più moderna ed immediata?
“Sì me lo aspettavo. Ho visto da vicino diversi rebranding e succede sempre la tessa cosa. Basti pensare a Enel (2016) o Juventus (2017). Credo sia normale: un rebranding viene immediatamente giudicato in base ai gusti soggettivi e questi sono sempre molto “conservatori”. La Torre Eiffel di Parigi fu aspramente criticata perché rovinava la città e la sua storia. Oggi non ci penseremmo un secondo a smontarla e Parigi, anche grazie alla Torre Eiffel, è una delle città più visitate al mondo. Chi critica è sempre una minoranza numerica, ma tipicamente fa molto rumore. Con i social media poi il fenomeno è incrementato dagli stessi meccanismi che hanno portato personaggi come Trump al potere: scambiamo quello che vediamo per una rappresentazione della realtà e ci troviamo invece in una enorme bolla personalizzata per estorcere like. Non è un caso infatti che tutto il polverone si alzi sempre su Facebook e mai su Instagram o LinkedIn”.
In base alla sua esperienza, cosa decreta il successo o l’insuccesso di una campagna di rebranding?
“Il tempo. Il tempo ha l’ultima parola. Il logo della Juventus è orribile, banale, mio cugino lo faceva meglio, ha cancellato la storia e la tradizione? Dura una settimana e poi i numeri dell’azienda dimostrano che con il tempo l’innovazione del logo diventa tradizione. Ma soprattutto permette maggiore inclusività: vi immaginate la difficoltà di un potenziale tifoso in Asia, nel comprendere il vecchio logo della Juventus?”.
In generale, secondo lei oggi in che modo occorre comunicare alla generazione dei Millennials, alle generazioni Y e Z?
“Questa è la domanda delle domande. Secondo me l’unica cosa di buon senso è fare dei media digitali il punto di partenza per la progettazione e l’esecuzione di tutto quello che ha a che fare con la comunicazione. Per questo assistiamo a trend come quelli dei loghi “piatti” (vedi i nuovi loghi di BMW o Volkswagen)”.
Quale messaggio si sentirebbe di dare ai giovani siciliani che volessero avviare una start up?
“Non perdete tempo e siate sempre concentrati sul trovare i giusti compagni di viaggio”.