Architetti che vanno a insegnare nelle scuole, avvocati che preferiscono farsi assumere da un grande studio o tentare la via dei concorsi pubblici, consulenti finanziari che diventano dipendenti di un’agenzia. Gli esempi non mancano per raccontare la “migrazione” dei lavoratori autonomi avvenuta tra il 2019 e il 2022: i numeri elaborati da Confartigianato Imprese parlano di un’Italia che ha perso 286 mila tra liberi professionisti e imprenditori (-17 mila in Sicilia), mentre il mondo del lavoro dipendente ne ha guadagnati 276 mila. Chi lavorava in proprio si lascia alle spalle l’ansia dei clienti da gestire e delle fatture da incassare per aggrapparsi a uno stipendio certo, persino con un reddito minore. Un fenomeno spinto anche dalle incertezze della pandemia, che ha inciso psicologicamente sul modo di intendere le priorità della vita e quelle professionali. Nonostante il calo del triennio, però, l’Italia resta la prima d’Europa per “self-employment” e sono ben 4,3 milioni gli autonomi censiti da Eurostat nell’ultimo trimestre del 2022. Seguono Francia, Germania e Polonia. Nel 2019 era la Turchia il primo Paese europeo per numero di autonomi (con 5,3 milioni), seguita da Italia (4,6 milioni) e Regno Unito (4,5 milioni).
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Tra finte Partite Iva e crisi generazionali
“La diminuzione – spiega Tiziana Ramaci, docente di Psicologia del lavoro alla Kore di Enna – è figlia di diversi fattori: scompaiono i tanti lavoratori, spesso giovani, che lavorano per un committente come partita Iva, più o meno finta, o quelli messi fuori gioco dai grandi centri commerciali e dalle catene prima, e dall’e-commerce dopo, nel caso dei negozianti, sconfitti dalla crisi post-Lehman Brothers e dalla stretta sul credito. Ancora: i piccoli artigiani e i micro-imprenditori, che hanno vissuto anche una sorta di crisi generazionale con tante attività che non sono divenute familiari per la mancata volontà dei figli”. Rispetto al passato, i giovani e in particolare i laureati sono meno interessati al lavoro autonomo: “Nell’ambito del lavoro dipendente – sottolinea Ramaci – nella classe 15-39 anni, a fronte di una diminuzione complessiva di quasi il 25 per cento (pari a oltre due milioni in meno di lavoratori) si registra una crescita significativa dei laureati che passano da 1,1 a 1,6 milioni (+49 per cento)”.
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Lavoro, vita privata e benessere mentale
Per l’esperta, “la scelta tra lavoro autonomo e lavoro dipendente è influenzata da diversi fattori: incidono le norme giuridiche e fiscali adottate dai diversi Paesi, le diverse culture del lavoro, ma anche alcune condizioni legate alla famiglia (la presenza tra i genitori di un lavoratore autonomo aumenta la probabilità che il figlio scelga il lavoro autonomo), così come a nuove e diverse percezioni sul lavoro delle generazioni”. Ma ci sono anche delle ragioni molto pratiche. Come il costo dello “smart working – ricorda Ramaci – che nel lavoro autonomo è interamente a spese del professionista, e in questi mesi si è assistito a un drastico calo dei redditi, specie tra i più giovani e le donne”. E i più giovani, in particolare quelli della “Generazione Z“, nati dopo il 1997, “secondo una ricerca condotta da Adobe – spiega Ramaci – entro il 2025 rappresenteranno il 27 per cento della forza lavoro. Questa generazione, ha memoria della crisi economica e questa precoce esposizione all’incertezza ha reso i giovani quanto mai pragmatici in termini di carriera: non amano lavorare da soli, prestano molta attenzione all’equilibrio tra lavoro e vita privata e al benessere mentale, apprezzano le attività che creano un senso di comunità”. Il lavoro dipendente ha anche queste caratteristiche.
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La sindrome da Partita Iva
Un dipendente non deve pensare alle tasse o ai contributi per la pensione (ci pensa il datore di lavoro), gode di ferie retribuite, permessi, malattie, tredicesima. Il lavoratore autonomo deve gestire clienti, impegni, utenze, attrezzature, spazi di lavoro, tasse, contributi previdenziali e ferie, “ma ha la possibilità di trovare sempre nuovi spunti e sentirsi gratificato – spiega Ramaci – e ha la libertà di creare la propria giornata lavorativa e senza i meccanismi interni tipici dell’ufficio. Tuttavia, la vita da freelance può essere stressante e può portare a burnout e ansia, anche per la difficoltà di trovare nuovi clienti, di affrontare i carichi di lavoro, di essere sempre originali, trattandosi spesso di professioni creative”. Lo stress da lavoro” è il compagno fedele di un libero professionista – sottolinea la docente – perché un lavoratore autonomo racchiude in sé il reparto progetto e sviluppo, quello commerciale, la produzione e anche l’amministrazione”. Sono le ragioni per cui un freelance vive una paranoia: l’essere i capi di se stessi significa vivere il tempo come unica fonte di reddito e l’impegno più grande è quello emotivo, perché si tratta di imparare a bilanciare la gestione di ritmi serrati e la paura di perdere tempo e clienti se non viene detto sì ad ognuno di loro. È la sindrome da Partita Iva, con evidenti disagi che possono diventare apatia, nervosismo, demoralizzazione. Secondo un’indagine di settore del Centro Studi Fnopi, il problema colpisce l’83 per cento dei lavoratori”.