Catania Città di mare? Un auspicio? Una vocazione? Vocazione ritrovata? Vocazione in linea con la sua storia e le sue tradizioni? Una nuova identità? La domanda invece potrebbe essere: qual è il tessuto economico-aziendale sottostante oggi e se esso è in linea o meno con le aspettative di una Città di Mare. Le evidenze sono controverse. La risposta potrebbe essere “non del tutto”, se facciamo il confronto con altre città e province marinare della Sicilia e del Mezzogiorno. La risposta potrebbe anche essere “sì” se guardiamo al contributo della blue economy all’economia di Catania e della sua provincia. Ma la risposta potrebbe anche essere “sì ma …” perché la distribuzione settoriale non è omogenea. Vediamo come è stata condotta la nostra analisi. Partiamo dall’ottavo rapporto sull’economia del mare di Unioncamere e dell’Istituto Tagliacarne. In base a questo studio, pubblicato a cadenza annuale, con riferimento all’ultimo anno preso in osservazione, cioè il 2018, vale 651,6 milioni di euro la filiera del mare della provincia di Catania (al secondo posto in Sicilia dopo Palermo che annovera € 1,2 miliardi).
Quarto posto in Sicilia
Però, per via di un valore del moltiplicatore inferiore all’unità (ovvero 0,9 euro per ogni euro prodotto in termini di valore aggiunto, come accade pure per le province di Caltanissetta ed Enna), tale filiera ha un effetto moltiplicativo sul resto dell’economia catanese pari a 562,4 milioni di euro, totalizzando così un valore assoluto complessivo (filiera del mare ed indotto) di 1,2 miliardi di euro (sempre calcolato al 2018) che pone quella etnea al quarto posto in Sicilia dopo le province di Palermo (3,3 miliardi complessivi con un moltiplicatore di 1,7 euro per ogni euro prodotto), Messina (2,3 miliardi con un moltiplicatore di 1,9) e Trapani (1,8 miliardi con un moltiplicatore di 2,4), ma davanti a Siracusa (1,18 miliardi di euro con un moltiplicatore di 1,9). Catania ha un effetto moltiplicativo più basso della media nazionale
I settori della “blue economy”
L’ottavo Rapporto sull’economia del mare di Unioncamere-Tagliacarne ha fotografato l’andamento della cosiddetta “blue economy” nei suoi settori economici costitutivi ovvero: pesca; acquacoltura; industria estrattiva; industria alimentare nella lavorazione e conservazione del pesce, dei crostacei e dei molluschi; trasporto marittimo e costiero di merci e passeggeri; servizi connessi al trasporto marittimo; il turismo (alloggio e servizi di ristorazione); attività sportive, di intrattenimento e divertimento; ricerca e sviluppo sperimentale nel campo delle scienze naturali e dell’ingegneria. Un focus di questo Rapporto sulla provincia di Catania fornisce qualche ulteriore elemento di riflessione. La distribuzione territoriale del valore aggiunto e dell’occupazione della “blue economy” vede Catania (con 15,2 per cento) al terzo posto per valore aggiunto dopo Palermo (28,6 per cento) e Messina 18,7 per cento), ma prima di Trapani (12,7 per cento) e Siracusa (9,5 per cento). La provincia etnea è invece al quarto posto (con 14,5 per cento) nella distribuzione territoriale dell’occupazione, preceduta da Palermo (24,9 per cento), Messina (16,8 per cento) e Trapani (14,7 per cento).
Valore aggiunto e occupazione
Analizzando, invece, nel dettaglio in che modo valore aggiunto e occupazione si distribuiscono nei diversi settori della “economia del mare”, si riscontra quanto segue:
- In termini di valore aggiunto, la filiera ittica contribuisce per l’8,6 per cento, l’industria delle estrazioni marine per il 4,5 per cento, la cantieristica per l’8,1 per cento, la movimentazione di merci e passeggeri per il 16 per cento, i servizi di alloggio e ristorazione per il 25,4 per cento;
- In termini di occupati, la filiera ittica copre il 15,2 per cento mentre i servizi di alloggio e ristorazione coprono il 27,5 per cento di tutto il lavoro che gravita nella blue economy.
Noi abbiamo condotto uno studio similare, utilizzando la banca dati AIDA Bureau Van Djik accesa presso l’Università degli Studi di Catania, ma abbiamo avuto modo di fare un’analisi differenziata, ovvero la sola città di Catania e l’intera provincia di Catania.Le società (prevalentemente di capitali) analizzate nel complesso sono 13.917 per la città e 32.820 per la provincia e quelle che afferiscono l’economia del mare sono 1.596 nel capoluogo e 3.279 nell’intero comprensorio. La “blue economy” pesa dunque per l’11,47 per centodi tutta l’economia locale a Catania (0,78 per cento a livello di tutta l’economia del mare in Italia) e per il 9,99 per cento di tutti i settori economici nella provincia (1,60 per cento dell’intera economia del mare in Italia). Il totale delle imprese attive al sistema camerale è però superiore alle società da noi analizzate. In provincia di Catania al 31 dicembre 2020 erano 82.345 e dunque sfugge ad un’analisi più dettagliata sull’incidenza dell’economia del mare la fetta grossa delle imprese, rappresentata da 54.448 ditte individuali.
“Turismo azzurro”
Per quanto riguarda la distribuzione settoriale, nel nostro studio si registra quanto segue:
- A Catania città, l’8,63 per cento del totale delle imprese afferisce ai servizi di alloggio e ristorazione, mentre in provincia questa percentuale scende al 7,73 per cento. Questi due settori, però, da soli intercettano più di 2/3 del totale delle imprese etnee della blue economy. Quindi è come se la blue economy di Catania fosse interamente “turismo azzurro”.
- Gli altri settori, infatti, sono decisamente meno rappresentati. Unica eccezione: le attività sportive, di intrattenimento e di divertimento: valgono il 14,85 per cento della blue economy di Catania e il 15,71 per cento di quella della provincia. La logistica marittima vale il 2,19 per cento della blue economy a Catania e l’1,80 per cento in provincia. La pesca vale 1,25 per cento dell’economia del mare a Catania e 0,91 per cento in provincia.
Il Rapporto sull’economia del mare sulla provincia di Catania (di Unioncamere-Tagliacarne) presenta una distribuzione settoriale leggermente differente, ma solo perché analizza l’intero universo delle imprese attive al sistema camerale. Pertanto, risulta che la maggior parte delle imprese etnee della “blue economy” si concentra nei servizi di alloggio e ristorazione (38,1 per cento), poi nella filiera ittica (24,3 per cento), a seguire nelle attività sportive, di intrattenimento e divertimento (15,6 per cento). Alla logistica (movimentazione merci e passeggeri via mare) afferisce il 12 per cento delle imprese catanesi della “blue economy”. E via discorrendo. Tornando alla analisi da noi condotta sulle società, le città di Trapani (17,20 per cento), Messina (12,84 per cento) e Palermo (11.58 per cento) registrano valori percentuali superiori a quelli della città di Catania in termini di contributo della blue economy all’economia locale. A Napoli, altra grande città marinara del Sud Italia, l’economia del mare pesa per il 12,34 per cento dell’intera economia e, con gli altri centri dell’intera provincia, contribuisce al 6,28 per cento di tutta la blue economy nazionale.
Imprese di modeste dimensioni
La dimensione media delle imprese catanesi dell’economia del mare è modesta. Per le società da noi analizzate, il fatturato dell’ultimo anno è in media 500 mila euro con un calo di più 200 mila € negli ultimi nove anni; la consistenza media di personale è pari a 9 unità. Le imprese che insistono nell’area portuale di Catania sono 109 a fronte di 123 che si registrano nel Porto di Augusta, che ha una vocazione differente da quello etneo (più turistico). Il Distretto produttivo regionale della Pesca (oggi ridenominato della Pesca e della Crescita Blu) è considerato una buona prassi e un modello replicabile perché va nella direzione della più autentica blue economy (l’equivalente della green economy per il mare), auspicata dall’imprenditore belga Gunter Paoli nell’omonimo libro pubblicato nel 2010, dove si auspicano modelli di economia sostenibile, bioeconomia ed economia circolare capaci di preservare e valorizzare la “risorsa mare”.
La sfida delle competenze
A questo punto della nostra analisi e tornando alla domanda di partenza, forse sarebbe il caso di valutare anche se Catania, oltre al tessuto economico-aziendale sottostante, abbia le competenze necessarie per affrontare le sfide della blue economy. Guardando al sistema dell’education, ci sono fra le scuole superiori solo due istituti nautici in provincia, a parte gli istituti tecnici, quelli turistici e ad indirizzo turistico. All’Università di Catania non ci sono corsi di laurea sulla blue economy, non c’è come a Napoli un intero istituto universitario navale (oggi Parthenope). Ci sono poco meno di 10 corsi di insegnamento impartiti nei due Dipartimenti di Scienze Biologiche, Geologiche ed Ambientali e di Ingegneria Civile e Architettura: gestione degli ambienti e degli animali marini, biodiversità in ambiente marino, fitoecologia marina, geofisica marina, trasporti marittimi, costruzioni marittime, port and coastal engineering (in Inglese). Ci sono due centri di ricerca multidisciplinari e interdipartimentali (l’Ora del Mare e il Cutgana) con compiti anche di Terza Missione nell’obiettivo di far crescere una coscienza ecologica.
La risorsa “Mare dell’Etna”
Il tema delle competenze però non può esaurirsi solo nel contributo formativo di Scuole ed Università. In generale, ciò che manca è la capacità di valorizzare pienamente una risorsa (il Mare dell’Etna che bagna Catania) e di trasformarla in prodotti, servizi, occasioni di business, attrazione turistica in modo da incrementare il valore aggiunto (e anche l’occupazione) della blue economy. Per operare questa trasformazione ci vogliono più servizi di fruizione e di comunicazione. I primi permettono di accedere alla risorsa e trasformarla nella direzione della blue economy. I secondi comunicano meglio una (neo) identità di Città di Mare. I progetti di cui si discute in questa due giorni – il Waterfront, la valorizzazione dei porticcioli e dei borghi marinari, il rilancio del porto di Catania (sia nella logistica che nel turismo) – vanno nella direzione giusta, quanto meno per riaprire il dibattito su Catania Città di Mare. Ai contenitori (di nuova progettazione o a quelli esistenti ristrutturati) bisogna far corrispondere contenuti (economico-aziendali e socio-culturali) in modo tale che si sviluppi una (neo) identità di Catania Città di Mare e si riallinei, dal punto di vista del marketing territoriale, l’identità con le vocazioni.