Da “Bartebly” al “quiet quitting”, dire no al lavoro per riprendersi la propria vita

Da “Bartebly” al “quiet quitting”, dire no al lavoro per riprendersi la propria vita

“Abbiamo due vite. La seconda comincia nel momento in cui ti rendi conto che la vita è una sola”. Questa massima di Confucio, citata a dismisura nei film americani e nei talk motivazionali, è il fulcro di una tendenza in voga nella generazione millennial. Tutto comincia la scorsa estate quando l’hashtag “#quietquitting”, lanciato suTik Tok da Zaid Khan, un ingegnere ventenne di New York, in pochi giorni ottiene milioni di visualizzazioni e migliaia di like, predicando una rivoluzione gentile ma implacabile ovvero “non devi abbandonare il tuo lavoro ma devi superare l’idea che la tua vita sia tutta lì”. Cresciuti nel mito del self-made man, con l’idea di dover fatturare per dimostrare chi siamo, conquistandoci il rispetto del prossimo (e di noi stessi) risalendo la scala sociale e puntando ai ruoli dirigenziali per poi godersi la pensione, abbiamo disimparato a dire semplicemente di no. Incapaci di sottrarci dall’equazione, sempre presenti e performanti. Ma il mercato del lavoro degli anni 2000 si è sgretolato nella versione attuale parcellizzata e precaria e la pandemia ha fatto il resto, estendendo la sfera dellosmart workingsino ad inglobare la nostra intera giornata. In pratica,fine pena mai. C’era una volta ilwork creep,la disponibilità ad accogliere compiti extra, senza orario, inclusi il weekend e la sera, sperando in una promozione. Ma complice la crisi del 2008, il mito della performance calvinista è in piena crisi e se da un lato registriamo un dato crescente di persone che rinunciano a lavorare in proprio puntando al posto fisso – ovverorinunciandoalla partita Iva e ad un potenziale miglior guadagno, in cambio di orari di lavoro e di uno stipendio “sicuro” – d’altra parte, il concetto stesso di lavoro sta subendo una trasformazione, aprendo ad una svolta epocale: se noi non siamo il nostro lavoro, sarà la fine della vision aziendale?Quiet-Quittingcoglie l’intenzione di lavorare esclusivamente nei tempi e nei modi stabiliti secondo il contratto di lavoro, senza fare straordinari o assumersi responsabilità aggiuntive. Ma sui social è accaduto altro. Difatti l’hashtag #Quittok raccoglie centinaia di video di persone che si registrano nell’atto di licenziarsi da un posto fisso, rassegnando le dimissioni, esprimendo la volontà di “riprendere il controllo della propria vita”. Mentre la società in cui viviamo giudica il nostro valore in base al numero di followers, alle cifre sul conto corrente e alle medie scolastiche, producendo un flusso ininterrotto di ansie prestazionali sin dall’età scolare, era inevitabile che un numero crescente di persone puntasse i piedi, andando controcorrente. Quiet-Quitting è la rivoluzione gentile delle nuove generazioni, ispirata daBartleby, lo scrivano, uno dei racconti più famosi della letteratura nordamericana. L’autore, Herman Melville, immagina un tranquillo scrivano di Wall Street che, all’improvviso, incrocia le braccia. Un personaggio iconico che ha ispirato le riflessioni di tantissimi autori, fra cui la giornalista e content creator Camilla Ronzullo (akaZelda Was a Writer) in libreria conI no che non dici agli altri sono quelli che imponi a te stessa(Mondadori). I social sono pieni di storie (vere o presunte) di chi ha mollato tutto per girare il mondo. Ma ilQuiet Quittingè una scelta diversa, possibile. Significa concedersi la libertà di opporre un netto e cortese rifiuto all’appiattimento, rallentando il ritmo, staccando la spina appena possibile. Andrea Colamedici e Maura Gancitano, filosofi e ideatori di Tlon, ci hanno riflettuto scrivendoMa chi me lo fa fare?(Harper Collins) e alzi la mano chi, almeno una volta con una scadenza alle porte, non se l’è mai chiesto.