Il mondo si divide fra chi ha buone idee e chi può farle funzionare. Non basta il genio o l’intuizione, non viviamo nel mondo delle fiabe e senza qualcuno che investe capitali, i sogni restano tali. Immaginate come sarebbe radicalmente diversa la storia del nostro patrimonio artistico se non ci fossero mai stati i mecenati, quei protettori che fra un assedio e un intrigo di corte, prendevano gli artisti sotto le proprie ali, stipendiandoli e finanziandoli affinché potessero creare liberamente capolavori. Oggi siamo in piena epoca digitale, anziché scolpire opere d’arte le stampiamo in 3D e piuttosto che dipingerle facciamo creare immagini all’intelligenza artificiale ma c’è sempre un disperato bisogno di qualcuno in grado di procacciare fondi per far funzionare la giostra. E ovviamente, trovare i finanziatori nel campo culturale è un’opera ardua poiché il profitto (quando arriva), giunge come scopo logico ma secondario rispetto alle finalità divulgative e d’incontro con la comunità.
Una figura in bilico tra terra e cielo
Ed è qui che entrano in gioco i fundraiser, quelle figure professionali specializzate nel raccogliere fondi per la cultura, professionisti che si rivelano determinanti per mantenere in vita i musei, organizzare concerti e spettacoli teatrali o per scongiurare che il nostro patrimonio artistico immobiliare vada in malora. Alessandra Pellegrini da trent’anni lavora con aziende che comunicano mediante l’arte e codifica il suo mestiere come “una figura sfuggente e fondamentale per il nostro presente e futuro, sempre in bilico tra terra e cielo”. Pellegrini raccoglie esperienze significative (come il restauro ambientale dell’Ultima cena di Leonardo da Vinci) e si racconta fra le pagine di Investire in cultura. Storia pratica per diventare fundraiser (pubblicato da Nutrimenti) con la prefazione firmata da Oscar Farinetti, il fondatore della catena Eataly.



Fundraiser, non questuanti
Il cambiamento è sempre una rivoluzione e la Pellegrini fa chiarezza: «La fundraiser non alza i soldi, non va dall’imprenditore a battere cassa, non scorre la rubrica per chiedere di sganciare». La fundraiser non è una questuante alla ricerca d’elemosina, dev’essere inquadrata come una manager, una professionista che lavora per il bene comune, nella convinzione che il bello e la conoscenza, se condivisi, portino ricchezza a tutti. Ma accade davvero? La fundraiser oggi è una manager capace di gestire risorse e motivare sponsor e imprenditori, magari ricorrendo ad un pizzico di psicologia, facendo leva sulla ricerca di visibilità internazionale (Nel 2016, la Tod’s spa finanziò il restauro della facciata del Colosseo con 25 milioni). Anche in Italia, le aziende private e stakeholder stanno finalmente maturando la consapevolezza necessaria per comprendere che un finanziamento in cultura è un atto di responsabilità sociale che può generare un notevole ritorno economico differito.
L’importanza dell’incontro
Ma c’è spazio anche per l’incontro con l’altro. Ne era convinto il sociologo Alain
Caillé, sottolineando il valore immateriale del dono, propulsore dell’agire sociale ma,
a dirla tutta, il mecenatismo in Italia latita anche per mere questioni fiscali: in
America donazioni e beneficenza sono incentivate perché completamente deducibili
dalle tasse mentre in Italia, solo da qualche anno, c’è l’art bonus che consente di
detrarre il 65 per cento dell’investimento.
L’esperienza di Fiumara d’Arte
Donare per creare fermento, proprio questo è il credo del mecenate siciliano Antonio Presti, il creatore di Fiumara d’Arte – uno dei parchi di sculture più grandi d’Europa – che recentemente ha donato alla città di Catania la Porta delle Farfalle, completando la Porta della Bellezza e trasformando il cavalcavia che attraversa il quartiere di Librino, in un’opera d’arte contemporanea aperta a tutti, coinvolgendo 15 mila persone della zona e cinquemila studenti di 20 licei artistici siciliani. Il risultato è la più grande opera monumentale al mondo in bassorilievo ceramico. Aperta a tutti e di cui tutti devono essere orgogliosi.