È il modo migliore per lavorare i grani antichi, di cui la Sicilia è la principale “custode” in Italia con 27 varietà registrate, ma di fatto è messo al bando dallo Stato. Parliamo della molitura “a pietra”, un tempo diffusa in tutta la Sicilia, oggi in gran parte soppiantata dalla tecnologia “a cilindri”. “Quella che si ottiene dalla molitura a pietra, per un cavillo normativo, non si può definire semola. Di conseguenza, con il grano duro lavorato in questo modo non si potrebbe nemmeno produrre la pasta”, spiega a FocuSicilia Paolo Caruso, agronomo, consulente esterno del dipartimento di Agricoltura, alimentazione e ambiente dell’Università di Catania e fondatore della pagina Foodiverso. Il rinnovato interesse per i grani antichi potrebbe rilanciare anche i mulini a pietra, ma finché la legge non cambia la loro posizione rimane incerta. “È un danno per l’Isola, perché questi mulini, che sono circa 50, teoricamente potrebbero produrre soltanto grano tenero, che in Sicilia è assolutamente marginale rispetto al duro”, osserva Caruso. A meno di non aggirare le regole, insomma, i mulini devono privarsi di una fetta di mercato notevole. Soltanto il grano antico in Sicilia vale circa 10 milioni l’anno, con 10 mila ettari seminati e 15 mila tonnellate prodotte.
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Una normativa “spigolosa”
A regolare la produzione e commercializzazione di sfarinati e paste alimentari è il Dpr 187/2001, che nei primi articoli definisce le caratteristiche dei lavorati di grano tenero e duro. Per quanto riguarda la seconda categoria, viene stabilito che “è denominato ‘semola di grano duro’, o semplicemente ‘semola’, il prodotto granulare a spigolo vivo […] liberato dalle sostanze estranee e dalle impurità”. Il riferimento è a una peculiare forma geometrica assunta dalla semola – lo “spigolo vivo”, appunto – che può essere rilevata al microscopio e che darebbe la garanzia di integrità del prodotto, ma che non si ottiene con la molitura a pietra, che dà alla semola forme più irregolari. “Questa regola fu concepita diversi anni fa, quando furono scoperti molti casi di adulterazione della semola con cui venivano prodotti pasta e pane, con polveri di gesso o addirittura di marmo”, spiega Caruso. Peccato che lo spigolo vivo “non sia un requisito qualitativo necessario”, ottenendo soltanto l’effetto di “impedire di lavorare il grano duro nel modo più tradizionale e salubre”.
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Proprietà del grano compromesse
Se la molitura “a cilindri” permette di lavorare una quantità maggiore di prodotto, spiega infatti l’agronomo, la qualità della farina prodotta è diversa. “La capacità di produzione è parecchio superiore rispetto al mulino a pietra, ma molte delle proprietà delle farine si perdono per strada”. Caruso fa l’esempio della farina integrale. “Con la molitura a cilindri si è costretti a effettuare un doppio passaggio: il germe del grano viene privato della crusca [il rivestimento che avvolge il chicco, ndr], che poi viene riaggiunta in un secondo momento, limitando le proprietà qualitative. Con la molitura a pietra, la crusca e il germe restano nella farina, senza rischiare di perdere le caratteristiche organolettiche del prodotto”. Queste proprietà, dice l’esperto, non sono di poco conto. “Sono state osservati effetti positivi sul diabete, sulle patologie coronariche e perfino effetti antitumorali, il che spiega l’interesse sempre maggiore che le farine non raffinate stanno riscuotendo tra i consumatori”. Per questo Caruso ritiene “un paradosso” il fatto che il metodo di lavorazione più adatto a realizzarle “sia di fatto bloccato da una legge vecchia e inutile”.
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Le perplessità della Regione
Una considerazione che deve aver fatto capolino anche dalle parti della Regione, visto che nel 2018 l’assessorato alle Attività produttive, guidato da Mimmo Turano, ha chiesto a Caruso e altri esperti dei pareri sulla validità della normativa nazionale in materia di grano duro. Nella relazione dell’agronomo, confortata da un’estesa ricerca bibliografica, è messo nero su bianco che “la dicitura a spigolo vivo costituisce un serio problema per i mugnai che macinano a pietra”, costringendoli a rinunciare o addirittura “a ricorrere ad espedienti che li pongono in una situazione borderline rispetto ai loro doveri legali”. Per questo, si conclude nel documento, “soltanto un intervento del legislatore può mettere fine a questo stato di indeterminatezza e porre le basi per uno sviluppo imprenditoriale del comparto”. Da allora, conclude Caruso, né la Regione né lo Stato si sono più interessati dell’argomento. “Un disinteresse nei confronti delle lavorazioni tradizionali che fa specie, considerando che poi le stesse istituzioni si affrettano a recepire le normative europee in materia di farine d’insetto prodotte all’estero, sulle quali i controlli sono tutt’altro che accurati”.