C’è una guerra che l’agricoltura sta combattendo, da ben prima del conflitto in Ucraina. È la guerra con il cambiamento climatico, che anno dopo anno mette in ginocchio le produzioni, in particolare quella dei cereali. “In Sicilia nel 2021 abbiamo prodotto circa sette milioni di quintali di grano duro, in calo rispetto all’anno precedente”, spiega a FocuSicilia Ignazio Gibiino, presidente di Coldiretti Agrigento e membro del direttivo nazionale. A pesare è la riduzione della superfice coltivata, “265 mila ettari contro i 300 mila del 2009”, ma soprattutto “le temperature fuori controllo, che ci costringono a seminare in ritardo abbattendo la produzione”. Un grave problema, proprio mentre il conflitto nell’Europa dell’est minaccia di tagliare le forniture di frumento. “Il tema riguarda soprattutto il tenero, che importiamo da molti Paesi, anche da Kiev e da Mosca”, dice Gibiino. Per fortuna, la tecnica mette a disposizione “armi” sempre più efficaci. Come il “miscuglio evolutivo” introdotto in Sicilia dal progetto Mixwehat. “L’obiettivo è creare coltivazioni di grano sempre più adattabili, in modo da massimizzare la produzione e far fronte alla carenze dovute a fattori esterni”, spiega Paolo Caruso, direttore di Simenza e innovation manager del progetto.
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I numeri della produzione
Per comprendere il discorso occorre partire dalla distinzione tra grano duro e grano tenero. Il primo serve per la pastificazione e la panificazione, il secondo per la realizzazione di dolci e prodotti da forno. Pur essendo tra i principali produttori mondiali di grano duro, il nostro Pease è anche il maggiore produttore e consumatore di pasta, quindi non è autosufficiente. Secondo un report che Ismea ha dedicato alla crisi nell’Europa dell’Est, l’Italia “sconta una strutturale dipendenza delle forniture estere, […] con un tasso di auto-approvvigionamento pari a circa il 60 per cento per il grano duro e 35 per cento per il tenero”. Traducendo in numeri, il fabbisogno annuale italiano è di circa sette milioni di tonnellate di grano duro, di cui quattro milioni vengono prodotte nel Paese – il 40 per cento da Puglia e Sicilia – e tre milioni importate dall’estero, principalmente da Nord America, Australia, Francia e Spagna. Per quanto riguarda le importazioni di grano tenero, la cifra sale a cinque milioni di tonnellate, acquistate da Francia, Austria, Germania, Ungheria e Stati Uniti. Malgrado l’allarme degli ultimi giorni, Russia e Ungheria non figurano tra i maggiori fornitori.
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I dati delle importazioni
Lo conferma il report Ismea: “Le importazioni di frumento tenero da questi Paesi sono state di circa il sei per cento nel 2020”. Resta il fatto che l’Italia “è esposta alle turbolenze dei mercati internazionali”, soprattutto in momenti di tensione come quello in corso. Benché la dipendenza dai Paesi coinvolti nel conflitto sia contenuta, il rischio sugli approvvigionamenti è concreto. “Questo non dipende dalla guerra, che ovviamente non fa piacere a nessuno, ma dal fatto che l’anno scorso fornitori come il Canada e l’Australia hanno registrato crolli vertiginosi della produzione, fino al 40 per cento”, osserva Gibiino. Il motivo, ancora una volta, sono i cambiamenti climatici, ma anche l’accaparramento massiccio di materia prima da parte di alcuni paesi. Ad assorbire la maggior parte del frumento, nel 2021, è stata la Cina. “È impossibile sapere se avessero previsto il conflitto, ma di fatto si sono accaparrati circa metà delle scorte mondiali”, dice il presidente di Coldiretti Agrigento. Al momento, insomma, il grano in circolazione è ben poco.
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L’impatto sugli altri settori
Si spiega anche così il raddoppio del prezzo, passato dalla media di 25 centesimi al chilo dello scorso anno ai 50 centesimi odierni. “In Sicilia negli anni passati il grano era arrivato a costare meno di 25 centesimi, un prezzo insostenibile visti gli alti costi di produzione”, osserva il presidente. Il prezzo attuale “sarebbe corretto in tempi di pace” ma oggi si scontra “con i rincari che anche noi dobbiamo affrontare”. In altre parole, il caro dell’energia e delle materie prime “assorbe” il margine di guadagno degli agricoltori. “Per lavorare il grano, inoltre, siamo costretti a mandarlo nelle altre regioni, visto che in Sicilia non ci sono impianti sufficienti”, aggiunge Gibiino. Non solo. La crisi degli approvvigionamenti innesca un effetto domino che si ripercuote anche su altre categorie. “La scarsità di granturco, per esempio, sta mettendo in difficoltà gli allevatori per quanto riguarda i mangimi degli animali”. Un problema che unito all’aumento esponenziale dei costi e del trasporto “rischia di abbattere un altro pezzo importante della filiera”.
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Da Aleppo alla Sicilia
In questa situazione, spingere al massimo la produzione nazionale e invertire la rotta sull’abbandono delle coltivazioni diventa cruciale. Un obiettivo a cui punta il progetto Mixwheat, finanziato attraverso il Piano strategico rurale Sicilia 2014-2021. Il progetto verte sul concetto di “miscuglio evolutivo”, spiega Paolo Caruso, innovation manager e direttore dell’associazione Simenza. Niente a che fare con l’ingegneria genetica. “Il miscuglio evolutivo venne portato in Italia alcuni anni fa dal professor Salvatore Ceccarelli, da Aleppo, in Siria”. L’idea è semplice. “Negli ultimi decenni l’agricoltura si è specializzata in coltivazioni singole, con una sola varietà di grano per volta. Il problema è che se il seme, per esempio, è sensibile al cambio di temperatura, tutta la coltivazione si perde”. Il principio del miscuglio è esattamente l’opposto. “Si tratta di diverse varietà di semi che vengono seminate insieme, e possono dunque adattarsi al tipo di terreno”. Il miscuglio, insomma, “seleziona” automaticamente le varietà più adatte, che riescono a crescere in determinate condizioni.
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Invertire la rotta
“Utilizzando questa tecnica, conosciuta dai popoli già nell’antichità, è possibile ridurre l’impatto del cambiamento climatico”, prosegue Caruso. E allo stesso tempo invertire la rotta rispetto a “scelte politiche sbagliate” compiute negli ultimi decenni, soprattutto in sede comunitaria. “Si è scelto di investire in coltivazioni di varietà singole, di spopolare le campagne e abbandonare i terreni da pascolo”, osserva Caruso. Cambiare rotta è ancora possibile. Avviato da alcuni anni, Mixwehat comincia ad attirare l’attenzione delle aziende agricole. “Fuori dalla Sicilia il miscuglio evolutivo sta premiando gli agricoltori e il prodotto viene utilizzato da realtà di assoluta eccellenza. Ecco perché conviene scegliere questo metodo, che diventa un’arma in più per resistere a questo momento difficile”, dice il manager. Se le tensioni legate alla guerra potrebbero auspicabilmente allentarsi in qualche mese, i danni prodotti dal cambiamento climatico avranno un impatto molto lungo. “Con Mixwheat gli agricoltori potrebbero tornare a guardare al futuro con maggiore serenità”, conclude Caruso.