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Il cappero di Salina “tradito” dalla Dop. “Nessun vantaggio, rischio abbandono”

A circa un anno dal riconoscimento della Denominazione di origine protetta, i coltivatori non riscontrano miglioramenti nei volumi d'affari. Intervista alla produttrice De Lorenzo

Una Denominazione di origine protetta “che non protegge assolutamente nulla”. Anzi, che rischia di essere controproducente, “creando una domanda che non può essere soddisfatta”. Maurizia De Lorenzo, produttrice di capperi dell’isola di Salina con l’azienda “Sapori Eoliani”, fa il punto della situazione con FocuSicilia a un anno dall’approvazione del marchio Dop del “cappero delle Eolie”. Una decisione contestata sin dall’inizio dai produttori dell’isola, Maurizia in testa, “perché il cappero delle Eolie semplicemente non esiste”. La produzione fuori dall’isola di Salina, spiega la produttrice, è praticamente nulla. “Non capiamo questo marchio cosa voglia tutelare”. Maurizia spiega di sentirsi più rappresentata “dal presidio di Slow food”, la Fondazione che tutela la biodiversità alimentare, “col quale 20 anni fa siamo riusciti a riavviare le coltivazioni”.

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Le caratteristiche del frutto

All’inizio degli anni Duemila, infatti, erano quasi completamente abbandonate. “Chi ha avuto la forza di resistere siamo stati noi, con l’aiuto di Slow Food. Il resto è propaganda”. Il riferimento è proprio alla querelle sul cappero eoliano, che dura ormai da qualche anno. Almeno dal 2019, quando cominciò l’iter per il riconoscimento della denominazione di origine protetta. Alla base, la volontà di tutelare una pianta con caratteristiche particolarissime. Si tratta di un arbusto perenne, i cui frutti si raccolgono da maggio ad agosto. Si raccoglie anche il “cucuncio”, che del cappero è il fiore. “I capperi di Salina si caratterizzano per compattezza, profumo e uniformità”, si legge nella descrizione di Slow Food. Particolarmente importante la consistenza del bocciolo, “garanzia di durata nel tempo (il cappero dell’isola sotto sale si conserva fino a due-tre anni)”.

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Una produzione limitata

Non solo. Slow Food sottolinea anche “la quasi totale assenza di trattamenti con antiparassitari o concimi chimici di sintesi, garanzia di assoluta salubrità del prodotto”. Caratteristiche che permettono a Salina di sfidare l’agguerrita concorrenza del cappero del Marocco e della Tunisia. Anche se la lotta è impari. La produzione attuale di cappero sull’isola, spiega la produttrice, è di circa 600 quintali l’anno. In stagioni particolarmente fortunate, si può arrivare a 700. All’istituzione del marchio Dop non è seguito alcun aumento delle vendite. Il volume d’affari è rimasto quello di due anni fa. Per Maurizia è quasi una fortuna. “Il nostro è un prodotto di nicchia, con una produzione moto limitata. Vendere un quantitativo superiore è impossibile, perché semplicemente manca la materia prima”. A produrre, attualmente, sono cinque aziende compresa la sua. “Come faremmo a vendere tre o quattro tonnellate, se già arriviamo a fine stagione col prodotto esaurito?”.

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Una produzione difficile

In effetti, il disciplinare di produzione della Dop prevederebbe la possibilità di coltivare capperi su tutto quanto l’arcipelago. Peccato che fuori dall’isola, secondo la produttrice, la produzione sia trascurabile. “Nelle Eolie, forse, qualcuno coltiva i capperi in giardino. Non so dove l’assessorato abbia visto queste coltivazioni”. L’equivoco, ribadisce Maurizia, è quello di pensare che il cappero sia una produzione tipica di tutto l’arcipelago, mentre non sarebbe affatto così. “Per questo siamo stati sin da subito contrari a questo marchio, perché rappresenta qualcosa che non c’è”. Tranne che per la politica. All’indomani dell’ufficializzazione della Denominazione di origine protetta, l’assessore regionale all’Agricoltura Edy Bandiera aveva esultato auspicando l’incremento “di una produzione fortemente redditizia, visto che il mercato ha una domanda che molto spesso non riesce a soddisfare”.

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“Serio rischio di abbandono”

Maurizia – che porta avanti l’azienda avviata alcuni anni fa dal figlio Roberto Russello, scomparso prematuramente – non è d’accordo. “Come si può pensare di aumentare la produzione, se a momenti non riusciamo a trovare la manodopera per garantire quella attuale?”. La difficoltà principale è legata alla raccolta. Recuperare il cappero, spiega, non è impresa alla portata di tutti. “Servono mani delicate ed esperte, che riescano a raccogliere senza rovinare il prodotto”. Un’abilità sempre più rara, a fronte di un lavoro particolarmente faticoso. “Una persona che non ha mai visto un cappero può raccoglierne massimo quattro, cinque chili al giorno”. Numeri che non convengono a nessuno, spiega la produttrice, visto che il lavoratore è pagato al chilo – circa tre euro – e l’azienda ha bisogno di raccogliere prima della fioritura.

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Proteggere una tradizione unica

Ovvero prima della trasformazione in “cucuncio”, il fiore del cappero, che viene pure commercializzato, ma in un’altra modalità. Inutile pensare alla meccanizzazione della raccolta, a causa della particolare conformazione della pianta. Del resto, spiega Maurizia, “l’artigianalità è molto importante per la qualità finale del prodotto”. Lo conferma Slow Food. “Le operazioni di raccolta vengono ancora oggi effettuate manualmente”. Il rischio è che il cappero, “pur essendo molto apprezzato dal punto di vista qualitativo, corra seri rischi di abbandono”. Per il futuro, l’auspicio è che la politica possa avviare azioni concrete e non solo di rappresentanza. “Noi vogliamo continuare su questa strada, perché abbiamo il dovere di proteggere le nostre tradizioni”, dice Maurizia.

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“Andare avanti per chi non c’è più”

Tramandare questa eredità alle nuove generazioni non è semplice. “È un lavoro molto particolare, di sacrificio, che non ti fa diventare ricco. Io lavoro dodici ore al giorno per portare avanti l’azienda. Non mancano le soddisfazioni, ma ti fai anche il sangue amaro”. Andare avanti non è semplice. “La forza si trova nell’amore di chi non c’è più”. Maurizia ricorda il figlio Roberto, che aveva deciso di avviare nuovamente la coltivazione del cappero iniziata anni prima dal nonno, ma non ha fatto in tempo a vederne i risultati. “È stato qui solo due anni, non è riuscito a raccogliere i frutti di ciò che aveva seminato. Io cerco di farlo per lui, finché ne avrò la forza”.

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Valerio Musumeci
Valerio Musumeci
Valerio Musumeci, giornalista e autore. Nel 2015 ha esordito con il pamphlet storico-politico "Cornutissima semmai. Controcanto della Sicilia buttanissima", Circolo Poudhron, con prefazione della scrittrice Vania Lucia Gaito, inserito nella bibliografia del laboratorio “Paesaggi delle mafie” dell'Università degli Studi di Catania. Nel 2017, per lo stesso editore, ha curato un saggio sul berlusconismo all'interno del volume "L'Italia tradita. Storia del Belpaese dal miracolo al declino", con prefazione dell'economista Nino Galloni. Nel 2021 ha pubblicato il suo primo romanzo, "Agata rubata", Bonfirraro Editore.

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