Sulla molitura a pietra l’Unione europea ha deciso di non decidere. La tecnica tradizionale di lavorazione del grano duro, di fatto bandita da una legge nazionale del 2001, non riceverà nessuna tutela da Bruxelles. Secondo il commissario europeo alla Concorrenza Janusz Wojciechowski, interrogato dall’eurodeputato Ignazio Corrao (Verdi), la norma che impedisce di chiamare “semola” il prodotto della lavorazione a pietra del grano duro (e in Sicilia, in particolare, dei grani antichi) “non sembra sollevare questioni connesse al diritto della concorrenza”. Inoltre “la promozione di azioni specifiche relative alla tutela e alla promozione dei mulini a pietra e dei grani antichi è di competenza degli Stati membri”, come del resto “la conservazione e la valorizzazione di tutte le forme di patrimonio culturale”. Nessun intervento dunque da parte della Commissione, che però conferma la possibilità di utilizzare le risorse Pac (Politica agricola comune) per la promozione dei prodotti tradizionali. Un contentino, secondo gli operatori del settore. “I mugnai continuano a soffrire per una situazione penalizzante e imbarazzante, soprattutto per i nostri politici, che probabilmente non conoscono il problema”, commenta l’agronomo Paolo Caruso.
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Gli “spigoli” della legge italiana
Il paradosso normativo sulla molitura a pietra era stato sollevato da FocuSicilia alcune settimane fa. La produzione e commercializzazione di sfarinati e paste alimentari è regolata dal Dpr 187/2001, che definisce le caratteristiche dei lavorati a base di grano tenero e duro. Per quanto riguarda la seconda categoria, viene stabilito che “è denominato ‘semola di grano duro’, o semplicemente ‘semola’, il prodotto granulare a spigolo vivo […] liberato dalle sostanze estranee e dalle impurità”. Lo “spigolo” di cui si parla è una peculiare forma geometrica assunta dalla semola, che può essere rilevata al microscopio. Per il Legislatore essa garantirebbe l’integrità del prodotto, ma molti esperti come Caruso non condividono questa tesi. Il cui effetto sarebbe esclusivamente di escludere la molitura a pietra dal mercato. Lo “spigolo vivo”, infatti, non può essere ottenuto con questa lavorazione, che dà alla semola forme più irregolari. Un serio handicap per la Sicilia, che conta circa 10 mila ettari seminati a grano antico (per la maggior parte duro) e una produzione 15 mila tonnellate, per un giro d’affari di 10 milioni l’anno. E dove esistono circa 50 mulini tradizionali, costretti a non utilizzare la molitura a pietra o a farlo di nascosto, esponendosi a seri rischi legali.
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Bruxelles: “Concorrenza non a rischio”
Una situazione tanto grave da essere sottoposta da Corrao al ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida e anche al commissario europeo Wojciechowski. Attraverso una interrogazione nella quale si chiedeva, tra le altre cose, se la Commissione intendesse “salvaguardare e promuovere lo sviluppo dei mulini a pietra e dei grani antichi”. La risposta, come detto, è stata negativa. Wojciechowski ammette che la legislazione dell’Unione “tutela prodotti e procedimenti specifici al fine di promuoverne le caratteristiche eccezionali legate all’origine geografica e alle conoscenze tradizionali”. Nel caso specifico, tuttavia, Bruxelles “non è al corrente del fatto che la legislazione italiana impedisce al prodotto ottenuto mediante molitura a pietra di recare la denominazione di ‘semola’ ed essere così immesso sul mercato”. Secondo il commissario, inoltre, “non esistono indicazioni relative al fatto che la legislazione nazionale in questione richieda, incoraggi o promuova accordi anticompetitivi fra imprese né che abbia delegato a operatori economici privati la responsabilità di adottare decisioni che incidono sulla sfera economica”.
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L’agronomo: “Danno grave per la Sicilia”
A detta di Wojciechowski, in definitiva, “non vi sono indicazioni del fatto che tale legislazione si traduca nell’abuso o nel rafforzamento di una posizione dominante di una data impresa”. In altre parole la concorrenza non sarebbe stata violata. Anche se l’Unione volesse intervenire, per di più, “non esistono norme relative alla commercializzazione a livello unionale per quanto riguarda le caratteristiche fisiche e chimiche delle farine”. Parole che secondo Caruso stonano con l’attivismo dimostrato da Bruxelles in altri contesti, a partire proprio dall’agroalimentare. “L’Unione Europea, così solerte e operativa nel consentire la commercializzazione della farina di insetti, risponde picche all’interrogazione formulata dal deputato europeo Corrao”, fa notare l’agronomo, tra i primi a sollevare il problema nell’Isola, realizzando anche alcuni studi per la Regione siciliana. “Un’indifferenza che rappresenta un danno grave per la Sicilia, la Regione con il più alto numero di varietà di grano duro in Italia, ben 27, alla quale di fatto viene impedito di utilizzare il metodo di trasformazione migliore per conservarne le proprietà organolettiche”.