Una community che riparte, e che a fine pandemia si ritrova fisicamente. Non una grande notizia se non fosse che a incontrarsi sono i lavoratori da remoto etnei. Remote Workers Catania esiste da prima dell’emergenza sanitaria con l’obiettivo dichiarato di ridurre l’impatto negativo della mancanza di socialità per questi lavoratori sempre più numerosi. La community, che conta oltre 1.300 iscritti, esiste quindi da prima che il tema dello “smart working”, definizione del lavoro da remoto presente solo in Italia, entrasse al centro del dibattito pubblico per via dei vari lockdown. L’incontro del ritorno in presenza, il primo di una serie di meetup con cadenza bimestrale e sempre in luoghi diversi, si è tenuto a Isola, spazio di co-working e “innovation hub” aperto lo scorso anno nel contesto eccezionale di palazzo Biscari a Catania per fare, partendo dal punto di vista di chi lavoratore remoto lo è da prima che le esigenze sanitarie lo imponessero, il punto della situazione post pandemia.
In Italia oggi oltre 5 milioni di “remote workers”
Ad aprire il dibattito, moderato da Giuseppe Virzì che è tra i fondatori della community, informatico e naturalmente lavoratore da remoto, è il giornalista Paolo Fiore, collaboratore di Agi ed Rcs, per le quali si occupa di temi legati all’economia e all’innovazione. Fiore, anche lui lavoratore da remoto e non a caso in collegamento da Milano, ha subito inquadrato la tematica dal punto di vista numerico: “Chi lavora da remoto è ora massa critica, questa la vera notizia. In italia si è passati da un 5 per cento di lavoratori da remoto del 2019 al 12,2 del 2020, secondo i dati raccolti da Eurostat”. In termini numerici, secondo una indagine del Politecnico di Milano, significa attualmente “circa 5,4 milioni di lavoratori, una crescita da imputare per la maggior parte ai lavoratori dipendenti, passati dal 3 al 11 per cento del totale, un salto clamoroso visto che la quota è triplicata”. Nello stesso periodo i lavoratori autonomi da remoto sono anch’essi cresciuti “passando dal 9 al 22 per cento”. Nel periodo post-pandemia la previsione, sempre del Politecnico di Milano informa Fiore, è per una quota di lavoratori da remoto in Italia che “dovrebbe assestarsi intorno ai 4,4 milioni”.
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Una nuova “massa critica” o possibilità per pochi
Una nuova “massa critica”, non eterogenea per tipologie contrattuali e mansioni, per la quale oggi si pongono problematiche di natura giuridica e di tutela. Una massa che cresce e che porta con sé anche temi politici, sollevati in particolare dal ministro per la Pubblica amministrazione Renato Brunetta e dal sindaco di Milano Giuseppe Sala, e che riguardano in buona sostanza le paure sulla tenuta del tessuto socio-economico di città attrattive per centinaia di migliaia di lavoratori della conoscenza. Come appunto il capoluogo lombardo, che secondo il primo cittadino potrebbe perdere una grande fetta di ritorno economico sul territorio. La docente di Geografia politica ed Economia Teresa Graziano, professore associato dell’università di Catania, anche lei ospite – in presenza – della serata, pone subito l’accento su un aspetto spesso sottovalutato nel dibattito: nonostante i numeri in forte crescita, si tratta di una tipologia di lavoro “ancora elitaria, con vantaggi più individuali che collettivi”. Un esempio forse controintuitivo della problematica è il mercato immobiliare: se un lavoratore da remoto di ritorno al Sud investe magari per l’acquisto di un appartamento vivacizza il mercato locale, ma “a livello più ampio cambierà il mercato degli spazi per uffici. Nelle grandi città interi grattacieli sono già ora sovradimensionati e sotto utilizzati e in futuro quasi certamente non avranno più motivo di esistere”. Un punto al quale si riaggancia Fiore, che sottolinea “la situazione paradossale: le città più connesse e adatte a un lavoro da remoto sono anche quelle con più problematiche potenziali derivanti dal suo sviluppo”.
Il ritorno ai Borghi, ad oggi quasi impossibile
Quello che stiamo vivendo è però “un periodo nel quale siamo ancora immersi nel fenomeno ed è quindi complesso avere la distanza necessaria per valutazioni”, sottolinea la professoressa Teresa Graziano. E la figura del lavoratore che svolge le sue mansioni da remoto magari da un borgo del Sud Italia, spesso presente in molti articoli di giornale, è decisamente marginale. La docente, che studia l’impatto del lavoro da remoto sui territori, sottolinea come in molte aree d’Italia “esistono forme di digital divide infrastrutturale”. Sono zone del Paese, molto frequenti al Sud e in Sicilia, denominate “aree bianche, dove le imprese di telecomunicazioni non ritengono conveniente investire perché la popolazione è bassa. E spesso manca persino la connessione telefonica di base, non la connessione a Internet”. Non si tratta solo di “aree interne da un punto di vista strettamente geografico, ma di quelle tante che stanno subendo da anni un calo demografico dovuto a bassa natalità ed emigrazione”. Concetti, ribadisce Graziano, che vanno contro l’idea tipica di una Internet “che annulla le distanze. Le periferie non sono diventate centro, e invece negli ultimi anni sono state accentuati i divari, con l’infrastrutturazione concentrata nelle grandi città”.
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L’esperienza dell’azienda .Devmy
Il dibattito è continuato con la testimonianza di Francesco Sciuti, cofondatore e amministratore di .Devmy, azienda di sviluppo software con sede a San Giovanni La Punta, ma che ha in questi due anni di pandemia “avuto uno sviluppo grazie anche al lavoro remoto. Siamo passati da poche unità a 17. Essere stati pronti a poter lavorare in questa modalità ci ha avvantaggiato”. L’azienda a oggi conta “sia lavoratori in sede che molti altri che svolgono la propria mansione magari dal Centro Italia. E per noi è importante dare a chi è presente a Catania la stessa possibilità di lavorare da remoto”. Sciuti, che si confronta su un mercato internazionale pieno di opportunità, ma anche di concorrenza, introduce inoltre lo spinoso tema del salario, sollevato nel dibattito politico con la potenziale introduzione di “gabbie salariali” in base al territorio da dove si lavora, misura che come sottolineato dal moderatore Giuseppe Virzì, per anni lavoratore da remoto per una azienda americana, “è già presente da anni nel territorio degli Stati uniti”. “Noi – spiega Sciuti – non possiamo certo permetterci di offrire lo stesso stipendio di una grande compagnia internazionale, ma cerchiamo di dare un valore umano all’interno dell’azienda, ascoltando le idee di tutti, e non sovraccaricando i lavoratori. Probabilmente nella nostra area economica depressa abbiamo messo un po’ di allegria”.
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South working e i dubbi sulla nuova proposta di legge
Tra gli interventi del dibattito anche quello di Elena Militello, fondatrice dell’associazione South Working, che oltre a studiare come ricercatrice universitaria il possibile impatto sui territori spopolati del Sud di un ritorno dei lavoratori da remoto, ha sviluppato in questi due anni di pandemia anche rapporti istituzionali, concentrando a oggi l’attività su un punto fondamentale: la riforma di legge del lavoro da remoto. “A oggi il settore è disciplinato dalla legge 81 del 2017, che rimanda le modalità a un accordo tra azienda e lavoratore”, spiega Militello. Il Parlamento italiano è però al lavoro su una riforma che definisce “iper regolamentazione”, tracciata sulle direttive emanate dal ministro per la Pubblica amministrazione Brunetta “ponendo dei limiti alle ore di lavoro da remoto, eliminando il concetto di lavoro per obiettivi che ne è alla base e introducendo invece cicli e orari. Si sta equiparandolo di fatto a una possibilità data ai lavoratori per motivi di assistenza e welfare”. La proposta di South working, già inserita in alcuni emendamenti, è innanzitutto quella di eliminare queste iper regolamentazioni, e poi di “aggiungere un riferimento ai territori per stimolare i Comuni a dotarsi in fasce periferiche del territorio di spazi di coworking”.
L’attenzione alla dinamica dei territori è quindi a oggi l’argomento principe nel dibattito sul remote working secondo la professoressa Graziano, che invita a “vedere l’evoluzione del fenomeno da questa prospettiva e non da quella del singolo lavoratore”. Anche perché il trend del momento, ricorda, “non è quello del lavoratore che ripopola i borghi abbandonati, ma dei luoghi attorno alle grandi città che si preparano ad ospitare con costi della vita inferiori questi lavoratori”.