Non studiano, non lavorano e non sono inseriti in percorsi di formazione. In Sicilia quasi un terzo dei giovani tra i 15 e i 29 anni fa parte dei cosiddetti “neet”, cioè delle persone che restano “ferme” ai margini del mondo del lavoro. Si tratta del dato più alto in Italia, che a sua volta, con un tasso vicino al 20 per cento, supera di circa otto punti la media europea (11,7 per cento). Sono i dati del Rapporto 2023 sulla situazione del Paese realizzato da Istat.
La classifica per regioni. Male Campania e Calabria
Le regioni con il maggior numero di “neet” dopo la Sicilia sono Campania, Calabria e Puglia (con tassi che vanno dal 25 al 30 per cento), mentre le regioni meno interessate sono Veneto, Emilia Romagna e Trentino Alto Adige (ben al di sotto del 15 per cento). In totale si tratta di circa 1,7 milioni di giovani, “sottratti” a un mondo del lavoro già gravato dalla crisi demografica. Secondo l’Istituto nazionale di statistica, infatti, “tra il 2021 e il 2050 si stima una riduzione della popolazione residente pari a quasi cinque milioni, nonostante l’ipotesi di saldi migratori positivi“. Una tendenza che porterà “una riduzione consistente della popolazione in età di studio e di lavoro”, ma che secondo gli esperti potrebbe essere “mitigata” riportando i giovani “nel sistema formativo e nel mercato”.

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Non solo “divanisti”
I “neet”, precisa Istat, non sono sfaccendati che stanno sul divano. Questi ultimi, anzi, sono una ristretta minoranza. La categoria più rappresentata, infatti, è costituita da semplici disoccupati (559 mila persone). Di questi, circa il 60 per cento risiede nel Mezzogiorno, contro il 40 per cento del Nord. C’è poi una parte di giovani che si dichiara disponibile a lavorare, “ma non cerca attivamente un’occupazione oppure non è disponibile a lavorare immediatamente, in prevalenza scoraggiati o in attesa dell’esito di passate azioni di ricerca“. Secondo l’Istituto, si tratta di circa 482 mila persone. C’è anche chi non cerca lavoro né è disponibile a lavorare immediatamente. Secondo Istat si tratta di circa 629 mila persone, ma anche in questo caso la situazione è piuttosto variegata. Nella categoria infatti rientra “chi è in attesa di intraprendere un percorso formativo (il 47,5 per cento tra i ragazzi), chi dichiara motivi di cura dei figli o di altri familiari non autosufficienti (il 46,2 per cento tra le ragazze) e chi indica problemi di salute”. In definitiva soltanto il 3,3 per cento dei “neet”, osserva Istat, “dichiara di non avere interesse o bisogno di lavorare”.

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Il ritratto del “neet” italiano
Il report fornisce ulteriori dettagli sui giovani “fermi”. Si tratta principalmente di ragazze (20,5 per cento) e in misura minore di ragazzi (17,7 per cento). La fascia di età più interessata è quella dei giovani tra i 25 e i 29 anni (25 per cento), mentre l’area geografica di provenienza è in prevalenza il Mezzogiorno (27,9 per cento). I valori nelle altre circoscrizioni sono più bassi della media nazionale, sia nel Nord-Est (12,5 per cento) che nel Nord-Ovest (14,2 per cento) che nel Centro (15,3 per cento). La maggioranza dei “neet”. secondo Istat, non si è ancora emancipata dai genitori. “Oltre i tre quarti (76,5 per cento) vivono da figli ancora nella famiglia di origine e solo un terzo (33,7 per cento) ha avuto precedenti esperienze lavorative“. Questo dato cambia in base alle fasce di età. Infatti il valore di chi ha lavorato “varia tra il 6,8 per cento per chi ha meno di 20 anni, il 46,7 per cento per chi ha 25-29 anni”. Quanto al titolo di studio, aggiungono i tecnici dell’Istituto, “l’incidenza dei ‘neet’ è di circa il 20 per cento tra i giovani diplomati o con al più la licenza media, mentre si ferma al 14 per cento tra i laureati“. Maggiore il titolo, minore la possibilità di restare ai margini.

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Invertire la rotta “entro il 2041”
Come detto, l’aumento del fenomeno “neet” incrocia un momento non semplice per il mondo del lavoro in Italia. Secondo alcune proiezioni Istat, già entro il 2041 “i residenti nella fascia di età fino ai 24 anni si ridurrebbero del 18,5 per cento, perdendo circa 2,5 milioni, e la popolazione adulta tra i 25 e i 64 anni scenderebbe di 5,3 milioni (meno 16,7 per cento)”. Allo stesso tempo “crescerebbe di quasi un milione di unità la popolazione tra i 65 e 69 anni (più 27,8 per cento)”. Sempre meno lavoratori e sempre più vecchi, insomma, “con conseguenze negative sull’impiego di capitale umano e la disponibilità di competenze, specie di tipo digitale”. Una tendenza non irreversibile, a patto di intervenire subito. Per gli esperti occorre “raggiungere i tassi di occupazione attuali dell’Ue27 nel 2041“, risultato che da solo “porterebbe da solo a ridurre di oltre due terzi (da 3,6 a 1,1 milioni) la perdita di occupazione che si avrebbe a tassi invariati”. I “neet” rappresentano il bacino prioritario a cui attingere. “Se si colmasse il divario (pari a ben 18 punti percentuali) nella fascia 20-24 anni, si otterrebbe un recupero di ulteriori 240 mila occupati”, conclude infatti Istat.