“Palermo e Catania si confermano due ecosistemi interessanti per numero e tipologie di startup. È vero, siamo ancora molto lontani dalle performance di altri ecosistemi territoriali, come ad esempio la Lombardia. Tuttavia, bisogna pur riconoscere che il mondo delle startup in Sicilia lo hanno sostenuto fino ad ora i privati e le Università, mentre il sostegno della Regione è stato fin qui molto tiepido e l’apporto abbastanza sfilacciato”. Sono le considerazioni di Rosario Faraci, economista e attento osservatore del mondo delle imprese siciliane, nel commentare l’ultima classifica delle startup stilata da Infocamere, che vede la Sicilia all’ottavo posto in Italia per numero di giovani imprese innovative: al 1 luglio se ne contano 689, mentre alla fine del 2021 erano 667, con un aumento quindi del 3,2 per cento. Come potrebbero crescere questi numeri? “Nell’attuale campagna elettorale – osserva Faraci – nessuno dei candidati a governatore, figuriamoci poi fra gli aspiranti parlamentari, ha idee ben chiare su come si possa incentivare realmente la nuova imprenditorialità innovativa nella nostra isola. Basterebbe, ad esempio, dar vita ad un grandissimo incubatore pubblico regionale per i team imprenditoriali e sicuramente si registrerebbe in poco tempo un’accelerazione sul fronte della quantità e della qualità di nuove startup innovative”.
Trend analogo a livello nazionale
Come si dice, mal comune, mezzo gaudio. Anche in Italia, infatti, la percentuale di crescita del numero di nuove startup (+1,8 per cento) del secondo semestre rispetto al trimestre precedente è in linea con quella delle nuove imprese in generale (+1,36 per cento), delle nuove società di capitali (+1,5 per cento) e delle nuove imprese artigianali (+1,8 per cento), sebbene queste ultime tre mettano a confronto i dati dell’anno in corso (secondo semestre) con quelli dello scorso anno (riferiti sempre allo stesso semestre). “I trend sono pressoché gli stessi. Dati alla mano, dunque, c’è una ritrovata voglia di fare nuova impresa nel Paese – commenta Faraci, docente all’Università di Catania – vuoi per necessità, poiché la nuova imprenditorialità funge anche da ammortizzatore sociale, vuoi per cogliere effettivamente nuove opportunità sul mercato. Il mondo italiano delle startup va interpretato per quello che è, senza alimentare grandi aspettative, ma nemmeno senza guardarlo con sufficienza. È sicuramente una delle sorgenti più importanti di innovazione, soprattutto nel trasferimento tecnologico dalla ricerca al mercato. Dal report di Unioncamere, emerge però che il 76 per cento delle startup innovative fornisce servizi alle imprese, quindi tre start su quattro operano nel mercato business-to-business. Sono i nuovi fornitori di servizi digitali delle imprese tradizionali, anche più grandi, già operanti nel mercato e dalle quali dipendono nelle loro traiettorie di crescita”.
Le startup poco rivolte al mercato consumer
“Appena un quarto delle startup invece – precisa Faraci – si rivolge al mercato dei consumatori, dove le opportunità di crescita e di scalabilità sono decisamente maggiori. Non sorprende dunque il fatto che in Italia, a parte qualche eccezione, non ci siano ancora unicorni, cioè startup con valore di mercato di almeno un miliardo di dollari. C’è dunque una debolezza competitiva intrinseca dimostrata anche dall’evidenza che il valore medio della produzione, riferito al 2020, risulta pari a poco più di 164,5 mila euro, secondo il report di Unioncamere. Sono valori di ricavi ancori bassi perché le startup, a differenza di quanto avviene all’estero, possano legittimarsi sui mercati come veri e propri motori di sviluppo. Vorrei evidenziare che le startup non rappresentano ancora nel nostro Paese grandi bacini occupazionali. Il valore medio del numero di dipendenti, riferito al primo trimestre del 2022, è di 3,75 persone per startup, quello mediano addirittura di 2. È pur vero che nei team di nuova costituzione ci sono tanti giovani che, pur lavorando, non hanno un contratto di impiego a tempo indeterminato, ma se in Italia si vuole incentivare l’occupazione stabile nelle startup bisognerà inventarsi qualcosa per evitare il diffondersi di precariato nel mercato del lavoro”, conclude l’economista.