Un bel giorno Giacomo Sorrentino si è stufato di aspettare che qualcuno leggesse il suo curriculum vitae. E ha deciso di indossarlo in versione gigante, entrando nelle aziende che l’avevano snobbato, puntando tutto sull’effetto-wow. In 5 anni, il 32enne romano ha spedito oltre 1000 curriculum e ha ottenuto solo 7 o 8 colloqui e “nessuno è andato a buon fine”. La laurea e due master non bastano, il ritornello è sempre lo stesso: stage con stipendi miserabili o non retribuiti oppure si viene scartati per mancanza d’esperienza.
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Curriculum, lo prendiamo con le pinze
L’inventiva e l’entusiasmo non mancano a Sorrentino che lo scorso 1° maggio, per la Festa del Lavoro, ha aperto un profilo Instagram, facendo della sua ricerca un’esperienza, una narrazione live, prendendosi l’attenzione dei media (come in questo caso), scavalcando il muro di gomma. Sorrentino ha indicato l’elefante dentro la stanza, del resto, LinkedIn era nato per condividere cv e offerte di lavoro ma si è tramutato in un social autocelebrativo in cui ogni esperienza diventa un evento, semplicemente perché il mercato langue e le assunzioni sovente, avvengono per passaparola, per segnalazione diretta, attraverso i gradi di separazione. Non stiamo parlando della piaga delle raccomandazioni ma della sensazione spiacevole che i cv siano diventati uno storytelling creativo, qualcosa da prendere con le pinze, frantumando la fiducia. Gli si preferisce un passaggio diretto – una competenza accertata da una persona fidata – anziché una sfilza di titoli, corsi e master di dubbia provenienza e ancor più incerto valore. Il risultato è una bolla sempre più chiusa, come se l’assunzione fosse un evento messianico, di cui pochi sono degni. Abbiamo cercato di capire se l’esperimento creativo di Giacomo Sorrentino ha ottenuto l’effetto desiderato, ma senza esito. La cosa fa pensare che le difficoltà continuano.
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L’80 per cento odia il proprio lavoro
Ma ribaltando il punto di vista, lo scoramento appare evidente: “I Neet, acronimo usato per definire i giovani che non studiano e non lavorano) in Italia sono oltre 1,6 milioni”. Lo rivela Gabriele Ferrieri, presidente di Angi, la prima organizzazione nazionale no profit interamente dedicata al mondo dell’innovazione in ognuna delle sue forme. E più indizi fanno una prova visto che “l’opinione di un campione di persone occupate in cento- quaranta Paesi, mostra che circa l’80 per cento odia il proprio lavoro”. Lo rivela la sociologa Francesca Coin, docente nel Centro di competenze lavoro welfare società del dipartimento di Economia aziendale sanità e sociale (Deass) della Supsi, in Svizzera. Il mondo del lavoro soffre, la sua “vision” (per usare il gergo yuppies anni Novanta-Duemila) e stenta a far presa sulle nuove generazioni. Lasciando da parte chi può permettersi di non lavorare, su TikTok spopola #QuietQuitting e il saggio della sociologa Francesca Coin – Le grandi dimissioni (Einaudi) – dona voce al malcontento esistenziale: “ci hanno sempre ripetuto che il lavoro è ciò che ci definisce, il fondamento della nostra dignità di esseri umani. E allora perché, in tutto il mondo, sempre più persone si dimettono?”.
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Una relazione abusiva
In America prolifera una rete #antiwork e pensando alle denunce dei braccianti, dei rider e del precariato giornalistico, emerge – scrive Coin “la disillusione di chi credeva che il lavoro fosse uno strumento di emancipazione o, almeno, un rapporto libero tra pari. Per poi accorgersi che nella pratica quotidiana il lavoro è spesso una relazione abusiva, priva di reciprocità”. Evidentemente senza lavoro e senza profitto crollerebbe l’intera società dei consumi/servizi come la conosciamo oggi ovvero la base stessa del capitalismo moderno. Una questione attuale ben lungi dall’essere risolta che ruota interamente attorno al concetto di fiducia, partendo dai cv e giungendo sino ai voucher. Datori di lavoro e potenziali lavoratori, ciascuno dal proprio lato della barricata, si chiedono: di chi possiamo fidarci? In ballo c’è una nuova idea di futuro. Già, ma quale?