Imprese siciliane fanalino di coda dell’Italia? Non è per niente così. Il sistema siciliano soffre, perde punti, ma resiste e nel 2019 fa il sorpasso: l’industria manifatturiera ha cominciato ad avvertire dal 2007 i colpi della crisi, in vent’anni (2000-2019) ha perso oltre il 40 per cento del suo valore aggiunto, le micro-imprese si sono fortemente ridotte, ma quelle con più di dieci dipendenti hanno retto al colpo, “ottenendo risultati in termini di produzione e occupazione simili al dato medio nazionale”, mentre “gli investimenti e la produttività, nel decennio, hanno ridotto i differenziali in alcuni settori merceologici e si è manifestata una ripresa della propensione all’export”. Lo certifica uno studio condotto da Svimez e Università di Catania (dipartimento di Scienze politiche e sociali), nel quale gli economisti Adriano Giannola (presidente Svimez) e Armando Castronuovo (direttore Osservatorio Pmi di Svimez presso il dipartimento universitario) hanno analizzato un campione di 600 imprese tra dieci e 500 addetti, sulle 1.400 censite nell’Isola e distribuite soprattutto tra Catania, Palermo, Ragusa, Siracusa, Messina e Trapani. “L’analisi è multidimensionale e tiene conto di varie performance – ha spiegato Castronuovo – ma i risultati sono inaspettati e il tasso di crescita è di oltre il tre per cento annuo”.

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Una crescita superiore a quella nazionale
I ricavi netti delle aziende esaminate fanno emergere come in dieci anni la crescita sia sovrapponibile a quella del settore manifatturiero a livello nazionale, se non anche migliore. Inoltre, il tasso medio di crescita nel lungo periodo è superiore dello 0,3 per cento annuo di quello nazionale e di un punto percentuale per le aziende da 50 a 500 addetti. Questo dimostra in sostanza “una buona tenuta del comparto – si legge nello studio – in questi anni di gravi turbolenze del mercato finanziario e di grandi difficoltà dovute alle manovre restrittive imposte dagli accordi in materia di politica economica in ambito Ue”, un risultato “non scontato, in quanto il settore manifatturiero in Italia è molto più densamente localizzato nelle regioni del Centro-Nord con un rapporto, in termini di valore aggiunto e di occupati, di quasi quattro volte e mezzo più elevato: 78 per cento rispetto al 22 per cento”. Per il presidente di Svimez, Giannola, da questi dati emerge “vitalità e capacità di competere con gli standard italiani”, ha commentato venerdì a Catania durante la presentazione dello studio.
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L’impatto del Pnrr e una crescita al quattro per cento
L’immagine che si ricava dall’analisi degli economisti è quella di un settore industriale “strutturato, in evoluzione, che può crescere nei prossimi anni e conseguire obiettivi di
specializzazione e integrazione”, come sottolinea lo stesso report. Questo potrebbe avvenire soprattutto grazie agli ingenti investimenti previsti per le infrastrutture dell’Isola, anche con i fondi del Pnrr. Una valanga di finanziamenti che non si vedeva forse dai tempi della Cassa per il Mezzogiorno e che avrebbe un impatto sull’economia dell’Isola enorme: i tassi medi di crescita potrebbero raggiungere il quattro per cento se le opere venissero completate nei tempi previsti, entro il 2026. Una “sfida per l’amministrazione nel mettere a terra le risorse del Pnrr e per le stazioni appaltanti di essere puntuali ed efficienti”, ha aggiunto Giannola.
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Crescita: Italia al palo, impennata della Sicilia
L’inversione di tendenza scatta nel 2017, ben prima della pandemia: il tasso di crescita della produttività (valore aggiunto/addetto) si impenna per raggiungere nel 2019 il 6,7 per cento per le imprese siciliane, anno in cui a livello nazionale non c’è crescita. Il sistema è però penalizzato dal numero minore di imprese diffuse nel territorio e alla “prevalenza di aziende strutturalmente piccole che sono più esposte alle fluttuazioni della domanda interna”, dicono gli esperti, oltre ad una “capacità di competizione e penetrazione nei mercati extraregionali meno efficace rispetto alle aziende dell’area centro-settentrionale”. In questa dinamica di crescita “hanno fatto da volano le risorse destinate all’accumulazione, specie in alcuni comparti (tessile, materie plastiche, apparecchiature elettriche e siderurgia). In questi settori il tasso medio di crescita degli investimenti ha superato anche del cento per cento il dato nazionale. Si tratta per oltre l’80 per cento di investimenti fissi, mentre il residuo trova impiego nell’acquisizione di servizi specialistici e nell’attività di ricerca e sviluppo”, sottolinea l’analisi.
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Capitale umano: evitare che i giovani emigrino
Le ‘vincenti’ sono in particolare le aziende con oltre 50 addetti, dove l’incremento del valore aggiunto è mediamente dello 1,2 per cento annuo più elevato di quello nazionale, la disponibilità di capitali propri aumenta del 2.9 per cento medio annuo e gli investimenti sono superiori a quelli nazionali. Molteplici le cause e l’analisi ne elenca alcune: migliorato assetto nel lungo periodo, capitale investito per lavoratore, dal progresso tecnologico, aggiustamenti sul piano organizzativo, gestione ottimizzata delle risorse umane, inserimento di nuove competenze, management, avanzamento tecnologico di impianti e macchinari, potenziamento dell’area ricerca e sviluppo. Come dire: gli imprenditori hanno fatto la propria parte. Adesso gli investimenti pubblici potranno spingere queste dinamiche di sviluppo. “Siamo per natura ottimisti – ha commentato Castronuovo – ma bisogna tenere conto di una serie di vincoli come la gestione del mercato del lavoro, fortemente disallineato, e dunque la necessità di puntare sulle fasce di età più giovani ed evitare che proprio loro prendano la via dell’emigrazione, in particolare all’estero. Questo ci toglierebbe quella parte di capitale umano decisiva per avviare una fase di crescita prolungata”.