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Mascherine stampate in 3D: il progetto Open source mask

L'idea di un ricercatore siciliano e di uno pugliese. Permette la produzione con materiali facili da reperire (come la carta da forno). Punta a limitare la speculazione

Un contributo in un momento di estrema difficoltà nell’emergenza coronavirus. È quello che si propone di offrire il team di Open source mask. È composto da due ricercatori Cnr (il ragusano Giuseppe Occhipinti e il bitontino Vitantonio Vacca) insieme ad Ambrogio Occhipinti (graphic designer), Savino Carbone e Davide Saponieri (video makers). Il collettivo ha dato vita al progetto no profit che permette di produrre mascherine a basso costo con stampanti 3D.

Come funziona

“Realizzarla costa dai 50 centesimi a un euro e si fa in soli 15 minuti”, spiega Giuseppe Occhipinti. “Basta collegarsi alla piattaforma di Open source mask ed eseguire il download gratuito di un modello con filtro usa e getta per stampanti 3D. La maschera si compone di tre pezzi facilmente assemblabili e confezionabili con materiali di uso quotidiano”.  I materiali sono facilmente reperibili. “I rivetti si comprano nei negozi di informatica (aperti secondo decreto). Per il filtro basta la semplice carta da forno”. Se la mascherina è l”impalcatura di base, sempre valida, l’efficacia del filtro fa la differenza (come avviene anche nelle diverse tipologie di mascherine in commercio). La carta da forno “per adesso è la cosa più semplice da reperire in una situazione di emergenza”. Ma, ammette Occhipinti, il prodotto deve essere migliorato: “Cerchiamo il contributo di ricercatori in tecnologia dei materiali per migliorare la scelta”.

Gli obiettivi: limitare la speculazione

È anche vero che non tutti hanno una stampante 3D in casa. “Ci sono però molte realtà che possono unirsi al progetto”, dice Occhipinti. “Ci sono hub come Fablab che hanno le stampanti, laboratori universitari, piccole imprese, negozi di settore. Non è un progetto per incrementare l’economia ma per abbattere le spese o le attività di lucro e sciacallaggio”. Soddisfare il fabbisogno di mascherine (che è di milioni di unità) o anche solo contribuire a colmarlo in modo significativo è un altro discorso.

Come nasce Open source mask

“L’idea nasce in risposta ai rincari speculativi per beni precedentemente di scarso interesse e che oggi sembrano essere diventati simboli su cui si è aggrappata la bieca speculazione che approfitta dei momenti di crisi e dell’irrazionalità collettiva”, scrive il team nel suo manifesto. “Siamo certi che non saremo sconfitti, ma è necessario fare la propria parte”. Il progetto è stato pensato “come antitesi a quello avviato da Cody Wilson nel 2013 (oggi esposta al V&A Museum di Londra)”. Lui, racconta Occhipinti, aveva realizzato una pistola con la stampante 3D, un’arma potenzialmente di offesa, e l’aveva resa pubblica, libera, open. Noi invece abbiamo fatto una maschera, un’arma di difesa, libera, pubblica, open”.

Prospettive future

L’idea è quella di andare oltre il coronavirus. Secondo il ricercatore, la stessa tecnologia potrebbe essere applicata “in aree in cui rifornirsi di mascherine è complicato anche in tempi di pace”. La produzione sarebbe “piccola e locale”, a “costi sostenibili” e senza “l’intervento di produzione industriale”. E così, in un’ottica che va oltre al problema contingente, il progetto si rivolge anche a maker, studenti, ricercatori, medici in aree estreme del mondo, Ong e a quanti possano trovarsi nella necessità di proteggersi.

Aggiornamento – ore 13: L’articolo sottolinea che utilizzare per il filtro materiali reperibili in casa è una soluzione di emergenza, non sostitutiva di quelle professionali.

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