Espresso, croissant e smartworking? In Francia hanno detto basta. Un articolo di Libération racconta che non solo a Parigi ma anche a Rennes e Bordeaux, sono comparse le scritte “Pas d’ordinateurs. Merci”. Ovvero, “niente computer, grazie” mettendo un freno allo smartworking nei locali pubblici, per via della preoccupazione – più che legittima – che tablet e notebook sui tavoli rovinino l’atmosfera da cartolina dei bistrot celebri in tutto il mondo. E del resto, sognare una vacanza sotto la torre Eiffel e poi ritrovarsi fra manager in attesa di una “call” non è certo romantico. Ma questo è un segnale di un cambiamento in atto, di un richiamo in sede forse ineludibile.
Milano, in ufficio l’85 per cento dei dipendenti
Chi, sull’onda emotiva dettata dalla pandemia, aveva predetto l’imminente fine del lavoro in ufficio si è sbagliato. Lo dimostrano i dati delle aziende milanesi e come riporta La Repubblica Milano “se nel 2022 nelle sedi aziendali milanesi era tornato il 60-70 per cento di dipendenti e consulenti, quest’anno siamo a quota 80-85 per cento circa” con una netta ripresa del commercio – fra pause pranzo e palestre – nelle aree interessate dal rientro dei dipendenti. I dati milanesi sono una cartina di tornasole, presumibilmente dettano il trend generale del futuro in arrivo. Intanto, secondo l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, nel suo report “Il futuro del lavoro al bivio”, i lavoratori da remoto erano oltre quattro milioni nel 2021, ma sono scesi a circa tre milioni e mezzo nel 2022. La verità è che facciamo ancora confusione, ma “una cosa però è certa: quello con cui i lavoratori si stanno confrontando in questo periodo è ben lontano dal concetto di smart working di impostazione anglosassone”, scrive Francesco Maria Spanò, il curatore di Lo smart working tra la libertà degli antichi e quella dei moderni, pubblicato da Rubbettino (pp. 180, 18 euro).
La classe dirigente non è pronta
Spanò – direttore People & Culture presso l’Università Luiss Guido Carli – parte da una considerazione interessante: da marzo 2020, in piena pandemia, la nostra concezione del lavoro è stata stravolta da queste due parole diventate d’uso comune – smart working – ma a ben vedere, sovente si tratta di forme ibride di telelavoro. E Spanò evidenzia che il cambiamento epocale che sembrava a portata di mano sta velocemente regredendo, complice “la cultura della classe dirigente che non sembra pronta ad accogliere un istituto che può rivoluzionare l’organizzazione del lavoro”. Ovvero, manca la fiducia nel sottoposto, tacendo sulle lacune normative ancora in atto, nonostante i proclami.
La Rivoluzione industriale 4.0 ci è sfuggita
Lo dimostra la partita politica in atto che riguarda l’estensione oltre il 30 giugno, della normativa di miglior favore sul lavoro agile nella Pa. Dopo la proroga fino a fine anno accordata a lavoratori fragili e con figli fino a 14 anni del settore privato, attualmente c’è l’intenzione di includere almeno i fragili del settore pubblico, al momento esclusi. Si pensa ad un’ulteriore proroga ma quella “rivoluzione industriale 4.0” cui si riferisce Spanò – con la possibilità di far leva sulle peculiarità dello smartworking per abolire le differenze di genere, ridurre le forme di assenteismo, un generale abbattimento dei costi e infine, una nuova definizione del proprio tempo libero, andando incontro alla tendenza del #QuietQuitting – sembra sfuggirci, per l’ennesima volta. E sarebbe un vero peccato.